Dei beni comuni

Stefano Rodotà

Questioni come macigni quelle che Stefano Rodotà butta lì oggi su Repubblica in un articolo intitolato Se il mondo perde il senso del bene comune. Al centro dell’argomento il riconoscimento dell’acqua e dell’accesso a internet, e per il suo tramite alla conoscenza, come diritti di tutti, inalienabili, incedibili ad un proprietario che si faccia avanti.

Come dargli torto? Ed anzi io credo che abbia ragione e che ci si possa spingere anche più in là del suo ragionamento. Vsdo per punti.

1. In calce all’articolo di Rodotà c’è giustamente scritto “Riproduzione vietata” e sotto la testata del quotidiano che lo ospita «€ 1». Ripeto: giustamente. Mi sento già un po’ in colpa per aver pubblicato questa mattina sul mio blog una canzone di Alan Sorrenti pescata su YouTube senza aver corrisposto neanche un centesimo al cantante rock. Quella è farina del suo sacco e si può ragionare sul prezzo dei cd ma non immaginare che anziché al mercato debbano appartenere al popolo.

Eppure tanto Sorrenti quanto Rodotà sono, almeno un pezzo, la conoscenza alla quale giustamente tutti hanno diritto. Biblioteche aperte, scuole pubbliche, educazione per tutta la vita, viaggi culturali garantiti. Lo dico senza alcuna ironia, sono d’accordo e lo trovo giustissimo, ma dobbiamo allora rivedere molte cose sulla distribuzione del reddito nel nostro mondo. Perché se uno possiede un maglificio, esercita in uno studio professionale, sforna pizze facendo pagare l’aggiunta di una manciata di cipolla 1 euro, ripara un elettrodomestico, affitta le 20 case libere che ha ottenuto in eredità, ha diritto a stipendi, remunerazioni, rendite, emolumenti e uno che, invece, ci mette solo del suo cervello, o della sua gola, può esser pirateggiato come ho fatto io stamattina con l’autore di Vorrei incontrarti o l’editore che mi ha offerto 50 euro per un pezzo che ne vale quattro volte tanto o il bandito di cui ho scritto parlando di traduttori?

2. Sulla questione delle Dolomiti che mi sta tanto a cuore e di cui ho già avuto modo di ragionare (Loculi e Il trust degli onesti): non è tanto il fatto che quelle vette ora siano in mano agli enti locali e non allo Stato centrale che le espone alla rapina, ma il fatto che adesso abbiano un prezzo e l’allucinante è che quella cifra sia stata fissata proprio dallo Stato centrale. Si può essere banditi a Belluno o a Bolzano come a Roma, non solo a Milano o a Palermo, in virtù di antichi cliché.

3. Tra i beni comuni – che come giustamente scrive Rodotà sono coloro la cui natura è «la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali», vale a dire quelli «”a titolarità diffusa”», che «appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive» –  non dovrebbero a pieno diritto rientrare l’aria che respiriamo, il sole che ci scalda e fa crescere le piante, il cibo senza il quale saremmo morti, le medicine che possono curarci, ma, soprattutto, la possibilità di lavorare e per mezzo di questa attività garantirci tutto il resto che agli altri è garantito?

4. Ancor più cogente, se il ragionamento di Rodotà è sensato – ed io ripeto che lo credo tale –, è perché quelle robe di interesse pubblico che sono le autostrade, le ferrovie, le linee aeree, i cavi del telefono, quelli dell’elettricità, i gasdotti, le antenne che trasmettono i segnali radio e tv e mi sto dimenticando sicuramente qualcosa, possano stare nelle mani di un privato, arricchendolo pure. Non penso ad aziende prive di profitto, ma a profitti investiti in bene comune, non in ville e yacht, fatti salvi lauti stipendi per chi fa bene il suo mestiere di boiardo dello Stato.

5. Questa terra è la mia terra, cantava molti anni fa Woody Guthrie, e il messaggio non era tanto quello della Padania ai padani o della Trinacria ai trinariciuti, di Israele agli ebrei e della Palestina ai palestinesi. Era stiamo qua tutti assieme e cerchiamo di starci senza pestarci troppo i piedi l’un l’altro, a meno che non abbia capito male. Quando i padri del liberalismo cominciarono a metter paletti e a delimitare i campi stabilendo chi potesse starvi dentro e chi dovesse starvi fuori il gioco della spartizione è iniziato e su quella strada si è finito per dare l’80% al 20% e il 20% all’80%. A nessuno che gli torni in mente di fare 1 a 1. Non sto facendo il comunista a tutti i costi, cerco di suggerire un punto di vista che forse ci aiuti a vedere quello che lo stesso Rodotà ci ricorda essere scritto nell’articolo 43 della Costituzione, «una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata».

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