Enzo Jannacci

Risus abundat

25 settembre 2013

Risus abundat in ore stultorum

Alcuni anni fa – una decina almeno, credo – uscì un libro – non ricordo più chi l’abbia scritto – nel quale si sosteneva che la sinistra è destinata alla sconfitta perché… è piagnona, propensa alla tristezza, tendenzialmente seriosa e insomma uno dovrebbe essere un masochista per mettersi nelle mani di uno incapace di ridere, godere, gustarsi la vita.

Non lessi quel libro ma ne parlai con una persona che mi illustrò quelle tesi sostenendone la validità, suggerendomi forse di rifletterci e, magari, farle mie. Non avendolo letto non posso scrivere nel merito, non è quindi con l’autore che qui, eventualmente, polemizzo.

È con l’idea così come io l’ho esposta che, semmai, posso duellare. E di questi tempi, nel deserto che si ha di fronte, misurarsi col tema non mi pare ininfluente. Quindi ci provo: o serve a qualcosa o, almeno, ci si farà su due grasse risate.

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Gente del nord

31 marzo 2013

Enzo Jannacci

Il milanesissimo Corriere della Sera ieri aveva un titolo davvero appropriato: «No, tu no». Quasi a scongiurare la notizia che stava dando, apriva le due pagine dedicate alla morte di Enzo Jannacci, e mi ha fatto pensare alla strofa che nella canzone da cui è tratto precede quella frase: «Vengo anch’io». Un desiderio di raggiungere il cantautore, di restare con lui e non perderlo, finanche di seguirlo pur di mantenere il contatto e continuare a ricevere quel che si è avuto. Che per me, e forse per altri, non è stato poco.

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Ah beh, sì beh

7 ottobre 2012

Enzo Jannacci

Cantava Jannacci: «E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam». Aveva ragione. Va davvero così. Qualcuno potrebbe pensare che sia solo ironia, ma le cose spesso vanno davvero a questo modo. Li ho visti coi miei occhi. D’un tratto inquieti e turbati anche per molto meno delle lacrime, che dico lacrime!, nemmen un luccicone. Basta un disappunto, una smorfia di fastidio, le rughe corrucciate sulle fronte e il re, il ricco e il cardinale s’accupano, provan smarrimento, un’ansia sgorga nel loro petto, faticano allora a parlare, il respiro si spezza, la saliva stagna e impone la deglutizione, non trovano le parole, distolgono lo sguardo, cercano soccorso con gli occhi in un punto indefinito dell’universo.

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Ecco, tutto qui

27 dicembre 2010

Una canzone intelligente

15 dicembre 2010

… anche un po’ di vocazione

8 maggio 2010

Luigi Albertini

Come promesso in Il mestiere più antico del mondo, su invito di Sara Fioretto, ho partecipato ieri nella bella libreria dei Servi, dinanzi a un pubblico di una ventina di persone, nessuna delle quali interessata a fare da grande il giornalista, alla presentazione del libro di Cristiano Tassinari, Volevo solo fare il giornalista, pubblicato dalla casa editrice Lìmina di Arezzo, al quale ho fin dalle prime battute precisato che, avendo comprato il libro con il 20% di sconto a € 16 pochi minuti prima dell’evento, avrei parlato non nel merito del volume ma del tema che invece conosco piuttosto bene.

Agli astanti ho spiegato che la scheda editoriale del libro, la quale invece avevo accuratamente letto, sostiene che Tassinari punta un dito contro un sistema fatto di lottizzazioni, raccomandazioni, favori, scambi e quant’altro, e denuncia il calvario a cui spesso, quasi sempre, sono sottoposti gli aspiranti giornalisti, a cui vengono proposti stage senza fine, contratti da cococo, pagamenti a rigaggio (spiccioli per ogni riga) e a borderò, interminabili precariati.

Ci siamo passati tutti, ma credo che oggi sia diventato un vizio, una regola, una consuetudine. Ritengo anche che, purtroppo, tale abominio sia diffuso ovunque: vogliamo parlare delle case editrici o dei call center o dell’antica mitica fabbrica? E ricordarci, come ci ha insegnato, se non ricordo male, il mitico Luigi Albertini, che «fare il giornalista è sempre meglio che lavorare».

Tassinari, che è un giornalista televisivo – senza offenderlo!, semmai lo devo ringraziare avendomi dato l’opportunità di ricordare che in libreria c’è anche un libro mio –, è un istrione. Ha tenuto banco buona parte del tempo, presentando e presentandosi, più che farsi presentare. Del resto, giustamente, non avendo io letto il libro, cosa che invece aveva fatto la gentile Sara. Ma uso la parola istrione perché poi mi servirà a sviluppare un ragionamento che devo al grande amico e maestro Piero Nacci.

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Grazie zii

12 aprile 2010

Sono stato invitato a Torino sabato e domenica. Anna, la sorella di mio padre che suona il pianoforte, fa un compleanno. Purtroppo non ci posso andare. Troppe cose da fare e pochi soldi in tasca: un giudice ha deciso che devo tirar la cinghia e le decisioni dei giudici non si commentano, si eseguono.

Anna è stata la moglie di Pietro Buttarelli, che purtroppo non c’è più e che nel 1957 (annus horribilis), insieme a  Fausto Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, dette vita a Torino al Cantacronache, gruppo di musicisti, letterati e poeti che, a giudizio di Umberto Eco, sono stati i precursori dell’esperienza dei cantautori italiani. Lo zio Pietro ha fatto l’attore di teatro credo soprattutto al Piccolo di Milano e aveva una parte, se non ricordo male, ne I promessi sposi del Manzoni, uno dei primi sceneggiati andati in onda sulla Rai quando c’era ancora solo un canale, l’Uno. I testi delle loro canzoni erano firmati da Italo Calvino, Franco Fortini, Gianni Rodari, Michele Pogliotti, Emilio Jona, Giorgio De Maria, e lo stesso Umberto Eco. A cantare con lo zio in quel gruppo ci sono stati anche Edmonda Aldini, Margot, Duilio Del Prete, Franca Di Rienzo, Pietro Buttarelli, Silverio Pisu, Glauco Mauri.

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Ci vuole orecchio

1 aprile 2010