Il recitativo di De André
5 aprile 2011
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Uomini senza fallo, semidei
che vivete in castelli inargentati
che di gloria toccaste gli apogei
noi che invochiam pietà siamo i drogati.
… è mai possibile
o porco di un cane,
che le avventure in codesto reame
debbano risolversi tutte
con grandi puttane
Anche sul prezzo
c’è poi da ridire…
Fabrizio De Andrè
Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers
A Mosè, secondo la versione riportata nell’Esodo tradotto in italiano, fu sufficiente scolpire nella pietra 1.676 battute, spazi compresi che ovviamente non vennero incisi: 1.676 battute, 313 parole e 13 paragrafi.
Secondo quella del Deuteromio 1.854 inclusi gli spazi e 354 parole e 14 paragrafi. Nella versione imparata a memoria a catechismo le battute si riducono a 357 spazi inclusi, 68 le parole e 11 i paragrafi. Dicono così:
Io sono il Signore Dio tuo creatore del cielo e della Terra! 1. Non avrai altro Dio all’infuori di me 2. Non nominare il Nome di Dio invano 3. Ricordati di santificare le feste 4. Onora il padre e la madre 5. Non uccidere 6. Non commettere adulterio 7. Non rubare 8. Non dire falsa testimonianza 9. Non desiderare la donna d’altri 10. Non desiderare la roba d’altri.
La scena è indimenticabile. Nello chalet sul monte Rushmore, Eve Kendall spara a Roger Tornhill per dimostrare la propria fedeltà a Phillip Vandamm. Il capolavoro di Alfred Hitchcock North by Northwest, in italiano tradotto Intrigo internazionale, porta alla conoscenza di tutti quello che è sempre stato un trucco dei servizi segreti o comunque delle bande in guerra: ammazzare un caro per dimostrare da che parte si sta.
C’è stato nella storia chi non ha esitato, restando tuttavia dov’era e portando fino in fondo la propria missione, piangendo poi per un’intera vita quel sacrificio per un bene superiore. Casi rari, da contare sulle dita, suppongo.
Come promesso in Il mestiere più antico del mondo, su invito di Sara Fioretto, ho partecipato ieri nella bella libreria dei Servi, dinanzi a un pubblico di una ventina di persone, nessuna delle quali interessata a fare da grande il giornalista, alla presentazione del libro di Cristiano Tassinari, Volevo solo fare il giornalista, pubblicato dalla casa editrice Lìmina di Arezzo, al quale ho fin dalle prime battute precisato che, avendo comprato il libro con il 20% di sconto a € 16 pochi minuti prima dell’evento, avrei parlato non nel merito del volume ma del tema che invece conosco piuttosto bene.
Agli astanti ho spiegato che la scheda editoriale del libro, la quale invece avevo accuratamente letto, sostiene che Tassinari punta un dito contro un sistema fatto di lottizzazioni, raccomandazioni, favori, scambi e quant’altro, e denuncia il calvario a cui spesso, quasi sempre, sono sottoposti gli aspiranti giornalisti, a cui vengono proposti stage senza fine, contratti da cococo, pagamenti a rigaggio (spiccioli per ogni riga) e a borderò, interminabili precariati.
Ci siamo passati tutti, ma credo che oggi sia diventato un vizio, una regola, una consuetudine. Ritengo anche che, purtroppo, tale abominio sia diffuso ovunque: vogliamo parlare delle case editrici o dei call center o dell’antica mitica fabbrica? E ricordarci, come ci ha insegnato, se non ricordo male, il mitico Luigi Albertini, che «fare il giornalista è sempre meglio che lavorare».
Tassinari, che è un giornalista televisivo – senza offenderlo!, semmai lo devo ringraziare avendomi dato l’opportunità di ricordare che in libreria c’è anche un libro mio –, è un istrione. Ha tenuto banco buona parte del tempo, presentando e presentandosi, più che farsi presentare. Del resto, giustamente, non avendo io letto il libro, cosa che invece aveva fatto la gentile Sara. Ma uso la parola istrione perché poi mi servirà a sviluppare un ragionamento che devo al grande amico e maestro Piero Nacci.
Cantava de André, ed era il 1967:
«Si sa che la gente dà buoni consigli / sentendosi come Gesù nel tempio, / si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio. / Così una vecchia mai stata moglie / senza mai figli, senza più voglie, / si prese la briga e di certo il gusto / di dare a tutte il consiglio giusto. / E rivolgendosi alle cornute / le apostrofò con parole argute: / “il furto d’amore sarà punito – / disse – dall’ordine costituito”. / E quelle andarono dal commissario / e dissero senza parafrasare: / “quella schifosa ha già troppi clienti / più di un consorzio alimentare”».
“Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto il volto implorante.
Nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettate monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
‘Non guarda in faccia a nessuno’.
(continua…)
Su Facebook, intervenendo in un dialogo multilingue scaturito dalla pubblicazione del mio post sull’iniquità retributiva, l’avita amica Ornella Galeotti, con cui di tanto in tanto ho puntuti battibecchi da aquila e non da gallina, e reciproci indispettiti scatti d’allontanamento, o scosse del collo come in cavalli imbizzarriti, l’equino rapace al femminile, un centauro, una sirena, un unicorno, giustamente – intendendosi oltre che di politica, di storia e di musica anche di giustizia – mi fa le pulci sulla risposta che, nel summenzionato post del blog che gulp fa gasp, ho dato al commento della signora Rossella Cecchini, stimata infermiera e ritrovata compagna nonché ahilei pluri-intervistata.
Sono stato invitato a Torino sabato e domenica. Anna, la sorella di mio padre che suona il pianoforte, fa un compleanno. Purtroppo non ci posso andare. Troppe cose da fare e pochi soldi in tasca: un giudice ha deciso che devo tirar la cinghia e le decisioni dei giudici non si commentano, si eseguono.
Anna è stata la moglie di Pietro Buttarelli, che purtroppo non c’è più e che nel 1957 (annus horribilis), insieme a Fausto Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, dette vita a Torino al Cantacronache, gruppo di musicisti, letterati e poeti che, a giudizio di Umberto Eco, sono stati i precursori dell’esperienza dei cantautori italiani. Lo zio Pietro ha fatto l’attore di teatro credo soprattutto al Piccolo di Milano e aveva una parte, se non ricordo male, ne I promessi sposi del Manzoni, uno dei primi sceneggiati andati in onda sulla Rai quando c’era ancora solo un canale, l’Uno. I testi delle loro canzoni erano firmati da Italo Calvino, Franco Fortini, Gianni Rodari, Michele Pogliotti, Emilio Jona, Giorgio De Maria, e lo stesso Umberto Eco. A cantare con lo zio in quel gruppo ci sono stati anche Edmonda Aldini, Margot, Duilio Del Prete, Franca Di Rienzo, Pietro Buttarelli, Silverio Pisu, Glauco Mauri.
Era molto tempo che avevo promesso di andare a trovarlo. Per un motivo o per un altro non l’avevo mai fatto. Lui, di carattere ombroso, e in più per una sorta di gioco al raddoppio, rimarcava spesso la mia mancanza, attribuendole un significato che lui stesso sapeva non esistere, quello del disinteresse.
Il 18 febbraio Fabizio De André, se non fosse morto, avrebbe compiuto 70 anni. Che debiti abbiamo con lui. Quanta riconoscenza. Non so se qualcuno ha mai scritto un libro di filosofia su di lui. Se nessuno l’ha fatto, si faccia avanti qualcuno. Regalo volentieri questa idea. Ecco come ce lo racconta Daniela Binello su Radio 24