John Maynard Keynes

Il 68 e la lingua di oggi

16 giugno 2013

Alcuni giorni fa, su un quotidiano fiorentino, il professor Pietro De Marco ha constatato che gli svarioni o le aberrazioni dilaganti nel linguaggio, e soprattutto nella scrittura, di chi si accinge ora a sostenere una tesi di laurea, sono da attribuirsi ai sessantottini. Scrive De Marco: «La generazione degli studenti di questo periodo è quella dei nati attorno al 1990», muro di Berlino già caduto, preciso io.

«La loro formazione scolastica “elementare” – aggiunge De Marco – si colloca negli anni Novanta, dunque sotto le cure delle generazioni di maestri e maestre (e dei professori della scuola media dell’obbligo) operanti in quegli anni: generazioni giovani, nate nei primi anni Settanta, intermedie (i nati negli anni Cinquanta-Sessanta) e anziane».

Spiega il professore che i formatori degli attuali venti-ventiquattrenni sarebbero a loro volta stati formati, anzi, puntualizza, “plasmati”, «dalla cosiddetta rivoluzione del Sessantotto e da altre “modernità”».

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Pubblicità in cassetta

30 agosto 2010

Non so chi abbia lasciato nella cassetta delle lettere di casa mia un biglietto con su impressa la frase tratta da un libro che mi è sconosciuto. «Non voglio disturbarti – si legge – voglio solo dirti che ti penso». Mi faccio ovviamente delle fantasie ma non vedo l’autore del gesto, non riesco a immaginarlo e mi pacifico pensando che sia una reclam, un modo di attrarre l’attenzione rivolto non solo a me ma a tutti i gli inquilini del condominio.

Trovo che comunque sia una cosa gentile e che, se tutti facessimo qualcosa del genere, la gente quando va a prendere bollette, fatture, estratti conto, solleciti di pagamento, si sentirebbe meno frustrata e infastidita. Anzi, mi verrebbe da proporre proprio ai grandi seccatori, a quelli che sanno di scocciarti, di metterti di malumore, di infastidirti, di prodigarsi in un gesto di umanità e sottile psicologia, una sorta di farmaco a poca spesa che ci renda un po’ meno incattiviti.

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Canali e canaglie

3 maggio 2010

Molti anni fa, in una “Bustina di Minerva” su l’Espresso, Umberto Eco scrisse un pezzo che avevo ritagliato ma non so più dov’è, forse nella casa che ho comprato con la fatica d’una vita eppur più non m’appartiene avendo provato io un sentimento ambiguo ed avendo ceduto alla malattia (tranquilli, non è leucemia!). L’articolo parlava della crescita dei “canali” mediali. Sostanzialmente diceva che quando c’era solo Rai 1 in bianco e nero, trattandosi di un solo canale, in mezzo a qualche porcata, poteva finirci dentro, o passarci attraverso, anche ottima roba. Dovevi riempire un palinsesto di 12 ore, perché a mezzanotte compariva una splendida sigla con non ricordo più quale musica e un’antenna che svettava nel globo di una globalizzazione appena in fieri, e fino al mattino seguente, niente zapping. Ho accennato a quell’epoca televisiva in un altro blog intitolato Fare tv.

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