In un sensato saggio pubblicato nel 1971 nella raccolta Verso un’ecologia della mente, l’impareggiabile antropologo e linguista Gregory Bateson – artefice della teoria del “doppio legame” – sostiene che da sobrio l’alcolizzato è «più sensato delle persone che lo circondano». Scavando tra le pagine di scrittori e filosofi – da Socrate a Leopardi, da Tolstòj a Montaigne – un alcolista sobrio va alla caccia di senso e logica, ricordandosi delle proprie compulsive passioni e delle emozioni che accomunano i seguaci di John Barlecorn e quanti riescono, invece, a non alzare il gomito. Se il primo passo è aver consapevolezza di quanto si sta bevendo, in queste pagine si incontra il cammino di chi beve e di quanti lo circondano. LEGGI DI PIÙ
La biografia di Primo Levi scritta da una persona che ha amato lo scrittore amando chi l’ha amato e gliel’ha fatto amare: perciò è «appassionata». In dodici condensati capitoli Questo è un uomo testimonia il valore del pensiero e della narrativa del prigioniero 174517 nel Lager di Auschwitz, insieme al debito personale dell’autore nei confronti di un maestro. LEGGI DI PIÙ
Il primo libro pubblicato dalla casa editrice TESSERE è Appropriazione indebita, una raccolta di trenta interviste realizzate per l’Unità da Daniele Pugliese fra il 1982 e il 1992 a filosofi, scienziati, intellettuali che hanno lasciato un grande contributo alla cultura e dalle cui parole ancor oggi è possibile trarre importanti suggerimenti per aprire i propri orizzonti e spalancare la propria mente. LEGGI DI PIÙ
Apocalisse,
il giorno dopo.
La fine del mondo fra deliri e lucidità
Pubblicato nella «collana coordinate» della casa editrice Baskerville di Bologna. Il libro, dalle ore 24 del 21.12.2012 e fino all’uscita del volume di carta è disponibile e scaricabile gratuitamente in formato ebook dal sito della casa editrice.LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana I venticinque» della casa editrice italo-francese Portaparole di Roma ed è acquistabile in libreria oppure online. LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana blu» della casa editrice Baskerville di Bologna, che annovera in catalogo autori quali Pier Vittorio Tondelli, Fernando Pessoa, Georges Perec ed è acquistabile in libreria oppure online.LEGGI DI PIÙ
Fra una decina di giorni si vota e nessuno è venuto a chiedermi di votare per lui. A nessuno interessa, dunque, il mio voto e, come avviene per me, presumo avvenga per chiunque altro. Ne desumo perciò che ai 42 partiti che si presentano alle elezioni dopo una nauseabonda, pluridecennale, ingegneristica diatriba sulla governabilità, i premi di maggioranza e i pregi del bipolarismo, non interessi il voto di tutti quelli che vanno a votare.
Sono stato qualche sera fa ad un incontro in una piccola bella libreria di Firenze, la Sit’n’Breakfast in via San Gallo. Si parlava di poliamore, neologismo di cui non ero a conoscenza e col quale, ho scoperto, si esprime il concetto di “amori molteplici”, facendo riferimento ad una posizione filosofica che «ammette la possibilità che una persona abbia più relazioni intime (sentimentali e/o sessuali), nel pieno consenso di tutti i partner coinvolti, in opposizione al postulato della monogamia sociale come norma necessaria».
L’ultima arrivata, Share’ngo, ha festeggiato da poco un anno. La prima, Car2go, a maggio ne compirà 3. Tre – la terza è Enjoy, sbarcata nel novembre del 2014 – come il numero delle società che a Firenze, su 650 macchine, fanno circolare quasi 70 mila automobilisti decisi a rinunciare a un’auto propria servendosi di quelle “condivise”, qui a disposizione di chi le prende e da lasciare là a disposizione di chi le prenderà al loro posto.
Ho tenuto sul comodino a lungo, per troppo tempo mi viene da dire, tra i non pochi libri che, per piacere o monito interiore, mi riprometto di leggere, Vicini e lontani (Donzelli, pp. 188, € 19), l’ultima fatica di Vannino Chiti, (www.vanninochiti.com), senatore della Repubblica italiana, a cui mi lega un antico rapporto fatto di “stima” e “affetto”, come lui stesso ha avuto occasione di dire nel corso della presentazione del mio Sempre più verso Occidente in una bella libreria di Pistoia, lo Spazio di via dell’Ospizio.
Nel ringraziare Enrico Zoi per l’intervista che mi ha fatto su “esserciweb” prendendo spunto dalla pubblicazione ora nel blog e poi in un e-book delle mie interviste raccolte in Appropriazione indebita, ho menzionato un certo numero di ex studenti del liceo classico Niccolò Machiavelli di Firenze che hanno poi intrapreso come me la strada del giornalismo, e nel ripescare i loro nomi nella memoria – in qualche maniera ripercorrendo i corridoi ed entrando nelle classi di quell’ex edificio militare, direi proprio una caserma con le sue camerate, nel quale ci si imbatte una volta varcato il grande portone di legno che su viale Filippo Strozzi, di fronte al Palazzo dei congressi, consente di accedere alla Fortezza da basso progettata da un pool di architetti al servizio dei Medici, tra i quali spicca Antonio da Sangallo il Giovane – ho visto decine e decine di volti proprio come in una sorta di Facebook privato, a molti dei quali associo un nome e un cognome, qualcuno di una persona a cui sono molto legato, a partire dalla mia ex moglie, ma anche altri amici ed amiche che vedo più o meno frequentemente ma sempre con il medesimo entusiasmo e sentimenti mutati sì ma non ininfluenti, e tanti altri compagni di scuola che invece restano anonimi o rarefatti o come sbiaditi, qualcuno anche svanito.
Eugenio Garin ci tiene a precisarlo. Non è iscritto al Pci, non parla della svolta «da dentro». Il che, lo sa, gli impedisce di dire delle cose che altri possono dire, ma anche gli permette di dirne delle altre che altrimenti dovrebbe tacere. Da «partecipe osservatore esterno» ha seguito questo «sconvolgimento» cercando di guardare ai fatti con quel rigore con cui per tutta la vita ha osservato la storia della cultura italiana. Un rigore che è innanzitutto tentativo di spiegare storicamente quello che succede. L’intervista con lui sposta leggermente il tiro dal titolo dell’inchiesta: la nuova teoria politica diventa storia della nuova teoria politica.
Friedrich Engels – le altre due mani, una testa, un cuore e, fortunatamente un bel gruzzolo da parte, senza i quali non avremmo oggi la fortuna di disporre del Capitale di Karl Marx –, in una lettera indirizzata a Laura, la figlia del filosofo di Trevi e del padre del comunismo andata in sposa a Paul Lafargue, sottostimato autore di Il diritto all’ozio, con il quale condivise in consapevolezza vita e morte, scrisse: «I Francesi, come tutti, sono sotto l’influenza della canicola. Tutto fallisce, anche i duelli!».
Il terrifico spettro che il buon vecchio Carletto – Marx di cognome – paventava si aggirasse per l’Europa, imbarbarita come Charles Dickens e Victor Hugo la stavano descrivendo, non raffigurava solo lo stato e l’ordinamento – il disordine molti avrebbero detto – prefigurato e utopizzato dal filosofo di Treviri e dai suoi accoliti, ma anche le folle che il comunismo auspicavano. Quelle folle maleodoranti, vocianti, scalmanate, in buona parte maleducate, incolte, ributtanti per i benpensanti.
Stando a quanto riferisce Davide Falcioni su www.fanpage.it il corrispondente da Pechino del Time, Michael Shuman, avrebbe scritto un articolo che rivaluta Karl Marx e addirittura gli riconoscerebbe di essere stato un profeta, le cui previsioni si sono avverate.
Al di là del fatto che ne riferisco di seconda mano, la notizia non mi pare sconvolgente, perché è vero che stiamo parlando dello “storico” settimanale statunitense dove le sole parole falce e martello non hanno mai incontrato grande successo, anzi portavano con sé puzza di zolfo, ma è anche vero che non mi sembra ci sia bisogno del pur prestigioso periodico per rendersi conto di una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il capitalismo gode di ottima salute, restringe la cerchia dei facoltosi e allarga quella degli indigenti, ma tutto sommato fa circolare quel tanto di pecunia con cui stordirsi davanti a una vetrina di Dolce & Gabbana, a un 21 pollici, a un 16 valvole.
Cosa ci è rimasto del comunismo o, quanto meno, di quell’estensione operata da Karl Marx di un pensiero egualitarista, solidaristico e, anziché liberistico, libertario, messo a punto dai sanculotti che fecero la rivoluzione francese e presero la Bastiglia nel lontano 1789, principi di cui si è impossessata, insieme ai proventi del profitto, la borghesia europea, riservando solo a sé quelli che dovevano essere diritti e furono trasformati in privilegi?
Personalmente reputo parecchio, benché con l’acqua sporca sia stato gettato via anche il bambino, ma so di essere in contromano, se non proprio solo, certo in minoranza assoluta, e tuttavia ho letto un bell’articolo di Marco Angelillo che testimonia dell’eredità lasciataci in dote se non proprio dai regimi sulla carta ispirati ad una più equa distribuzione delle ricchezze – in realtà all’oppressione da parte degli apparati, o dei più furbi insediatisi lì dentro, sulla maggioranza della popolazione –, dalla loro contrapposizione al blocco avversario, ovvero sia, per spiegarsi con altre parole, dall’esistenza di una guerra fredda combattuta mietendo vittime sotto altro nome e tuttavia senza mai fortunatamente schiacciare quell’orrendo pulsante che avrebbe potuto spazzare via in un battibaleno l’intera umanità senza dargli nemmeno il tempo di fiatare.
Trovo molto, molto educativo l’articolo di Donatella Di Cesare pubblicato domenica scorsa sul supplemento La lettura del Corriere della Sera che, come ben sanno i miei lettori, è una delle fonti più ricche che io conosca di idee e spunti meritevoli di rifletterci sopra.
Intitolato L’ossessione fatale deprecata da Marx: misurare in denaro anche la morale con un catenaccio che spiega L’economia invade l’etica e ci fa sentire perennemente in colpa, l’articolo di Donatella Di Cesare, rubricato alla voce “Filosofia”, faceva da pendant ad altri due scritti che, prendendo spunto dalle vicende greche ed europee, sono dedicati al Debito perpetuo: uno di Adriano Favole rubricato come “Antropologia” dal titolo In principio non fu il baratto ma il credito. E il giubileo finanziario per evitare la schiavitù. Le ricerche smentiscono Adam Smith e la visione individualista della società, e l’altro, rubricato “Storia”, di Sergio Romano, intitolato Sella, Luzzatti & C. Il Dna dell’Italia che risana i conti si è quasi perduto. Era un affare privato dei re ma tutto cambiò con lo Stato moderno.
Il grande errore commesso dai seguaci di Karl Marx – li si voglia chiamare socialisti o comunisti, poco importa – è stato quello di sbandierare come obiettivo risolutivo dell’ineguaglianza in terra l’abolizione della proprietà privata, o, secondo la lettura che ne hanno fatto le classi possidenti, detentrici di una proprietà privata la quale non fosse la sola forza lavoro e la prole, da cui il termine proletariato, la requisizione, l’esproprio della proprietà privata, in altre parole il furto, un che di banditesco e rapinatorio, anziché un articolo di codice, una legge da applicarsi, un’eguaglianza da condividere. Questo ha comportato, insieme al duplice significato contenuto nella parola “spettro” impiegata da Marx stesso all’inizio del Manifesto – un fantasma pauroso più che un’hegeliana inconsistenza – un secolo di timori e anche un bel po’ di giustificato terrore.
Il senatore del Pd Vannino Chiti – a quel che si legge sui giornali da non pochi del suo stesso partito ribattezzato nel miglior dei casi “guastafeste”, perché da un po’ di tempo sta ripetendo che intorno al tavolo della Costituente sedette gente di un certo calibro e scrupolosa di far qualcosa che avesse un po’ di logica e potesse star in piedi per più di un decennio – ha scritto un libro (di cui gentilmente mi ha fatto dono) che, mi spiace dirlo, temo non verrà letto da molti.
Sia chiaro, non è un best seller, non ci sono dentro tutti quegli espedienti che in saggistica, compresa quella politica, non meno della narrativa, contribuiscono a rendere “glamour”, “smart” o “smoothie” quel barattolo di pelati racchiuso da una copertina “friendly” e anche un po’ “sexy” che faccia il tutto “trendy” e carico di “mood”. Ed appunto per questo già si candida a star fuori dai “top ten” dei quali ho recentemente letto – lo scorrer delle pagine sugli e-book può essere implacabile come il tabellone alla Nyse di NY – che vengono comprati e a mala pena si arriva a pagina 15, poi non si va avanti ma si dice, in salotto, di esserne in possesso.
Che sciocchezza è mai questa, di cui la Repubblica di ieri, sabato 3 maggio 2014, dà conto, riproducendo per intero un articolo di Noam Cohen pubblicato su The New York Times, dal quale si apprende che è in atto uno scontro in carta bollata riguardo i diritti d’autore relativi alle opere di Karl Marx!
L’articolo riferisce di una petizione in rete con la quale si chiede di non applicare il principio della proprietà privata alle opere dell’autore del Capitale, lasciando gratuitamente a disposizione dell’umanità, acciocché possa servirsene per la propria emancipazione e per sottrarsi al giogo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quei circa 50 volumi di cui io ne possiedo una trentina, tomi che nel frattempo c’è chi ha provveduto a trasformare in ipertesti consultabili semplicemente digitando tre volte la w.
Ho condiviso su Facebook dalla bacheca di non ricordo più chi, e me ne scuso, una fotografia, scattata quasi certamente in un ambiente studentesco, su cui spicca la scritta: «La gentilezza è rivoluzionaria».
Gli apprezzamenti registrati mi inducono a credere che la gentilezza sia ambita e, perciò, probabilmente rara, ma anche che la rivoluzione non sia sempre terrifica come invece si è soliti pensare, e che già solo pronunciando il suo nome s’ingeneri il panico.
Un articolo intitolato Non è mio ma lo uso, uscito il 9 novembre scorso sul Corriere della Sera, dà conto, per lo più in termini sociologici, del diffondersi di abitudini in base alle quali non si rinuncia a servirsi di ciò di cui si ha bisogno, ma preferendo rinunciarne al possesso: si gira in automobile, ma con il car-sharing, ed anche in bicicletta con analogo sistema; cresce il mercato delle case in affitto, aggiungo io spesso già ammobiliate, dove mura, tetto, letto, lavandino, doccia e fornello non sono propri ma pronti all’uso; il contratto con la compagnia telefonica prevede anche il comodato in uso dello smartphone; e-book e brani musicali si scaricano senza impinzare scaffali e mensole e stanno in memoria anche solo di passaggio; lo smoking è a noleggio, le mutande non ancora, ma forse il maglione già quasi.
Alcuni anni fa – una decina almeno, credo – uscì un libro – non ricordo più chi l’abbia scritto – nel quale si sosteneva che la sinistra è destinata alla sconfitta perché… è piagnona, propensa alla tristezza, tendenzialmente seriosa e insomma uno dovrebbe essere un masochista per mettersi nelle mani di uno incapace di ridere, godere, gustarsi la vita.
Non lessi quel libro ma ne parlai con una persona che mi illustrò quelle tesi sostenendone la validità, suggerendomi forse di rifletterci e, magari, farle mie. Non avendolo letto non posso scrivere nel merito, non è quindi con l’autore che qui, eventualmente, polemizzo.
È con l’idea così come io l’ho esposta che, semmai, posso duellare. E di questi tempi, nel deserto che si ha di fronte, misurarsi col tema non mi pare ininfluente. Quindi ci provo: o serve a qualcosa o, almeno, ci si farà su due grasse risate.
Vorrei fugare i dubbi di qualcuno che, avendo letto i miei ultimi scritti, notando l’insistenza con cui mi occupo di Gesù Cristo, e sapendo del mio tenace ateismo, stesse ipotizzando una tardiva conversione al cristianesimo o al cattolicesimo.
Ho usato il termine ateismo e non agnosticismo perché il primo, derivato dal greco àtheos, letteralmente vuol dire “senza dio”, ed indica una posizione filosofica – opposta al teismo, al panteismo, al politeismo e al monoteismo in particolare assunta da un individuo, quale io sono, che non crede in nessuna divinità.
Occorre precisare che essere senza dio e non credere in nessuna divinità non impedisce di ragionare intorno all’idea che si è venuta formando di esso, e negarne appunto il fatto di essere stato pensato, l’esistenza di individui che vi credono, di bisogni interiori che inducano a cercarlo e a ritenere di averlo trovato.
La rinuncia all’ideologia – ma anche agli ideali e alle idee di cui necessariamente è alimentata –, nonché alla fede verso un impianto concettuale così complesso – teorico prima che pratico e, perciò, più o meno utopistico –, è una delle ragioni, niente affatto insensate, per cui è stato smontato e fatto a pezzi il Partito comunista – la sua cultura, la sua organizzazione, la rete che gli stava intorno e lo stesso patrimonio di idee, esperienze, uomini, immobili, teste e testate – ed anzi, di più, i pilastri logici, emotivi, psicologici, esperienziali e finalistici su cui non solo quel partito si reggeva in piedi, ma la stessa struttura della politica, il suo essere organizzata appunto prevalentemente in formazioni e organismi più o meno grandi a grandi ideali ispirati, o alla convinzione, almeno, che anche piccole scelte, gesti, azioni, iniziative quanto meno dovessero aver quello scenario all’orizzonte o, come si cantava, quella “speranza in cuor”, ed esser quindi di parte, una o l’altra o un’altra ancora.
Alcuni giorni fa, su un quotidiano fiorentino, il professor Pietro De Marco ha constatato che gli svarioni o le aberrazioni dilaganti nel linguaggio, e soprattutto nella scrittura, di chi si accinge ora a sostenere una tesi di laurea, sono da attribuirsi ai sessantottini. Scrive De Marco: «La generazione degli studenti di questo periodo è quella dei nati attorno al 1990», muro di Berlino già caduto, preciso io.
«La loro formazione scolastica “elementare” – aggiunge De Marco – si colloca negli anni Novanta, dunque sotto le cure delle generazioni di maestri e maestre (e dei professori della scuola media dell’obbligo) operanti in quegli anni: generazioni giovani, nate nei primi anni Settanta, intermedie (i nati negli anni Cinquanta-Sessanta) e anziane».
Spiega il professore che i formatori degli attuali venti-ventiquattrenni sarebbero a loro volta stati formati, anzi, puntualizza, “plasmati”, «dalla cosiddetta rivoluzione del Sessantotto e da altre “modernità”».
C’è chi dice – l’ho udito con le mie orecchie e non ho avvertito malizia – che il mio difetto peggiore sia l’esser epicureo. Io invece mi dispiaccio di non esserlo a sufficienza, di non aver completamente interiorizzato e fatto miei, fino a sentirli come istinti che s’azionano senza starci su a riflettere, gli insegnamenti di quel filosofo, o forse i fondamenti di un buon senso che “il soccorritore” – questo significa il suo nome – si limitò a raccogliere, mettere in fila e diffondere tra i suoi discepoli nel giardino, al quale inusitatamente erano ammessi anche gli schiavi e finanche le donne!
Giovedì, il 6 settembre, alle ore 17.30 alla Biblioteca delle Oblate, in via dell’Oriuolo 26 a Firenze, la rivista Testimonianze e l’associazione Politica e Società hanno organizzato un incontro nel quale verrà presentato il libro I miei occhi hanno visto, un’intervista a cura di Francesco Comina e Luca Bizzarri pubblicata dalle edizioni Il Margine, a Agnes Heller, l’allieva di György Lukács la cui notorietà è principalmente legata al successo che ebbe nel 1977 il suo libro La teoria dei bisogni in Marx.
Trovo interessante che a confrontarsi sul suo pensiero ci siano tre generazioni di esponenti del Pd: la senatrice Vittoria Franco, l’ex assessore alla cultura Simone Siliani e il vicesindaco di Firenze Dario Nardella. Cercherò di essere ad ascoltarli.
Qualche anno fa ho letto, un po’ in tralice, un libro di cui non ricordo più titolo e autore, nel quale si sosteneva che la sinistra era geneticamente condannata a perdere e restare minoritaria, perché il suo lamentarsi, il suo accusare, la sua critica allo «stato presente di cose» ne rivelavano il volto triste, amareggiato, infelice. E come fa uno a volere dolore e sconforto? Perché si dovrebbe scegliere un tal autoflagello?
C’è del vero in quell’analisi, benché i pochi tentativi che io conosco di mettere a punto una eudaimonia, vale a dire una dottrina morale che identifichi il bene con la felicità – e, aggiungerei io per essere maggiormente preciso, più che con la felicità con uno stato di benessere, di serenità, di pienezza e anche capacità di sorridere e godere – siano stati operati proprio nell’ambito del pensiero diciamo così, genericamente, di sinistra, ammesso quest’ultima parola abbia ancora un qualche senso.
C’è una tendenza insita nelle tradizioni del pensiero di sinistra alla commiserazione, al pianto, al funereo, allo sconsolato, al catastrofico e all’apocalittico: lo spostamento della «abolizione dello stato presente di cose», per usare la più compiuta definizione messa a punto da Karl Marx dell’obiettivo da raggiungere, vale a dire della creazione di uno «stato futuro di cose», quasi automaticamente comporta un soddisfacimento non qui e ora ma là e poi, lasciando all’hic et nunc il fastidio, la scontentezza, il disagio.
Il mistero sta tutto nella parola “alcune”. Se indica un quantitativo tale che, rivendute ad una ad una sulle bancherelle di un mercatino a Soho, fa tirar su un bel malloppo, ebbene, tutto quanto ha un senso. La logica c’è se quella parola racchiude il concetto plurale della parola stock, quindi non il suo significato semplice di merce, ma quello quantitativo che si evince leggendo questa voce di dizionario: quantità di merci o materie prime giacenti in un magazzino o in un negozio.
Forse aveva torto Giorgio Gaber, ricostruendo il manicheismo che agitava (agita?) i nostri cuori, a sostenere che il bagno è di destra e la doccia è di sinistra. Ma dal modo in cui ci laviamo possiamo trarre qualche suggerimento non tanto sulla nostra collocazione politica, quanto sulla nostra intelligenza o stupidità.
Dunque, pensando a quanti, di destra o di sinistra, usano farsi grondare acqua in testa anziché immergersi, mi chiedo quanti riescono ad aprire il rubinetto o il miscelatore senza bagnarsi. Le manopole solitamente vengono posizionate dagli idraulici proprio sotto l’annaffiatore, per cui la botta di freddo è inevitabile. Sono decenni, quasi secoli che le cose vanno avanti così, e raramente si provvede a far diversamente. Prima dell’allestimento, non si accende il cervello: mai che venga in mente di posizionare i rubinetti a fianco del getto, all’ingresso della cabina. E questa banale notazione non diventa il parametro del “a regola d’arte” di chi fa quel mestiere attinente il flusso dell’acqua.
La quantità di viti, chiodi, brugole, anelli, tasselli, dadi, bulloni, ganci, gancini che si accumula inutilizzata in una casa nel corso degli anni può essere vista non solo come una manifestazione degli sprechi a cui ci siamo abituati, ma anche della stupidità con cui, invece, tentiamo contro lo spreco di conservare. Conserviamo per non sprecare, riproponendoci di utilizzare in avvenire quel che è avanzato, senza cioè dover comprare nuovamente e invece spesso si finisce per avere delle nuovi viti da 8, solo che questa volta anziché brunite sono d’acciaio o viceversa.
Fin qui il pensiero di Revelli e degli autori mediante i quali potremmo trovare, volendola cercare, la «politica del futuro».
Karl Marx
Condividendo l’obiettivo – ancorché, come detto, secondo una sfumatura leggermente differente, la quale parte dalla costatazione che, ragionando di politica, se ne può semmai trovare una per il presente, e solo quella, niente di più, che per comodità ora chiameremo la “politica cercata” – proviamo a portare altra acqua al mulino per vedere se, uniti gli sforzi, si giunge a una qualche mèta da cui non ne derivi «una sconfitta per tutti». Il punto di partenza allora è, a giudizio di chi scrive, il «paradigma politico dei moderni», o meglio, per essere più precisi, il «paradigma politico».
Si è fin qui sostenuto che quello indicato da Revelli, ovvero sia il paradigma hobbesiano, non sia in realtà quello su cui si è retta la politica negli ultimi quattro secoli. Purtroppo. Ma non è così. È stato forse il paradigma su cui si sono fondati gli Stati moderni, ma non quello che ha regolato i rapporti tra gli esseri umani. E la politica, appunto, non è altro che la cornice che regola i rapporti tra gli esseri umani.
«Forse dovremmo aver più coraggio – scrive Revelli – nell’affermare, con maggior nettezza, che il “paradigma politico dei moderni” non funziona più»[1].
Ma forse non è un problema di coraggio, né questione di affermare con maggior nettezza. Semplicemente «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più». O meglio non ha mai funzionato. E questo al di là della buona fede e dell’acume di Hobbes.
È vero che la molla che muove l’uomo verso la politica è, come sostiene Revelli, la sofferenza di Giobbe, il torto subito, l’ingiustizia patita da una vittima per mano di chi non avrebbe proprio dovuto esserci nemico e di chi detiene un potere così enorme su di noi?
È vero, ma solo parzialmente. Innanzitutto dobbiamo sbarazzarci di un equivoco. Giobbe se la vede con Dio; gli uomini, dinanzi alla politica, con altri uomini. Di poi è vero, e nemmeno interamente, per le classi subalterne, per le vittime dell’ingiustizia. Anche fra gli umili c’è chi non reagisce, chi non sente l’impulso della molla. Anche fra i sudditi vessati dal potere c’è chi sbotta non per sé, ma per i propri simili. Anche nel proletariato c’è chi comincia a darsi da fare non per eliminare le classi, ma per risalire la scala sociale.
Ancora una volta, fastidiosamente, sento confondere il nihilismo con l’edonismo. Ne sono irritato. Anzi: ne provo disgusto. Mi schifa veder associati i tanti che si sono dolorosamente inquietati dietro quella parola derivante dalla parola latina per nulla anziché al Maelström o a Vienna, a Las Vegas, divenuta la nuova Babele.
Ho rispetto per il pensiero cattolico come per quello di ogni altra religione, ma il pregiudizio e l’ottusità non mi piacciono, ovunque ristagnino. E qualunque sia il pur encomiabile fine che si prefiggono. Per cui non ho niente in contrario a che un filosofo propugni la «tensione dell’uomo “verso l’alto”» o un percorso proteso «al bene assoluto» o che guardi alla vita come a «un’attesa verso l’esistenza accanto al divino». Posso addirittura sentirmi vicino a lui quando individua nell’”americanismo” o nel sistema di vita che quel continente ci ha imposto ciò che sta azzerando le identità nazionali e locali, ma l’associazione di ciò che per egli costituisce il «mondo spazzatura» mi disgusta: perché mescolare il dio denaro o i divertimenti sfrenati, con le convivenze promiscue, il crollo dei nuclei familiari, la libertà di aborto, l’eutanasia, la cremazione, e soprattutto perché associare tutto ciò a quel sentiero che fin da Hegel ci hanno insegnato a percorrere?
Era il ‘96, che se lo giri fa ‘69, anno caldo per eccellenza, e non in senso pornografico. Antonia avrà avuto quindici anni e c’è da immaginarsi che saltellasse indignata dietro a un camion che sparava musica a tutto volume per manifestare la protesta degli studenti. Chissà che s’era inventata la Gelmini dell’epoca.
Non so se Massimo gioisse di quella passione o ne fosse spaventato, o né l’uno né l’altro, solo incuriosito. So per certo che prese carta e penna, cinque fogli a quadretti, e in rigoroso stampatello, prima di corsivare «Baci Babbo», vergò MARX per ANTONIA.
Roberto D’Ippolito è il quarto da sinistra, accovacciato in basso. Io quello al suo fianco, ovviamente a sinistra. Litigavamo come matti alle elementari. Lui figlio di un poliziotto, seriamente convinto di far rispettare l’ordine e la disciplina, io di un intellettuale di sinistra. Già allora lui era democristiano ed io comunista. E parlavamo, parlavamo, parlavamo e non ci trovavamo mai d’accordo, e ognuno di noi due aveva sempre qualcosa da ridire, da aggiungere, da precisare per spiegare all’altro quali fossero le proprie ragioni.
Ho seguito il convegno su “partito e federalismo” organizzato questa mattina a Livorno dall’associazione Politica e società, messa in piedi da Vannino Chiti e altri sinceri appassionati delle sorti di questo paese e della forza politica che potrebbe tentar di dargli una chance, ammesso che non sia troppo tardi. Il vicepresidente del Senato e gli altri promotori dell’associazione mi hanno affidato l’incarico di mettere in piedi il sito www.politicaesocieta.it che tenterà di essere uno spazio di riflessione dove raccogliere le idee “per la” e “della” sinistra.
Ho ascoltato alcuni degli interventi e vorrei dire qualcosa di mio sul tema. Se scelgo di farlo nel mio blog e non nel sito dell’associazione è perché, essendo da molti anni fuori dalla politica e non volendovi rientrare proprio ora se non con un contributo professionale a una causa che mi par meriti d’essere sostenuta, non so dove finiscano le mie opinioni personali e dove esse possano cominciare a diventare, una volta pubblicate su un sito riferibile a un’associazione dal direttore responsabile, una linea, una strategia, un’indicazione di lavoro. Invece, lo ripeto, sono riflessioni personali e vorrei restassero tali finché non siano condivise espressamente.
Uno dei libri più belli che io abbia mai letto è Finzioni di Jorge Luis Borges. Il cui titolo m’è tornato alla mente pensando a ciò che ormai guida noi bipedi con la presunzione dell’intelletto. Già Marx ce lo spiegava. Saremmo finiti in un mondo dove il valore dei soldi sarebbe stato sempre più nominale, dove la banconota sarebbe stata soppiantata dalla transazione virtuale. Non son parole sue, ma se si vanno a ricercare i concetti li si ritrovano e quando uno scrive di merce come feticcio la dice lunga. Noi di ciò siamo consapevoli, come ebeti intontoliti dinanzi a Borse che vanno su e giù e dichiarazioni di Prodotti interni lordi di cui non vediamo neanche gli spiccioli tanto sono rarefatte e immaginarie, fantastici e spettrali quegli scambi di denaro.
Avevo promesso di scrivere qualcosa di più su quel che mi legava a Edoardo Sanguineti che maledettamente ci ha lasciati. Avevo 20 anni, forse 21. Dirigevo già un giornale. Si chiamava Concentramentorenove, allusione alla scritta che concludeva i volantini con cui si chiamavano gli studenti medi e universitari a partecipare a un corteo, dandosi appuntamento, appunto alle 9, in piazza San Marco a Firenze. Era il periodico dei circoli universitari comunisti – distinzione netta dalla sezione universitaria del Pci – ed usciva come poteva e quando poteva. Ne uscirono 5 numeri e non farebbe male un giovane studente che volesse laurearsi in storia del giornalismo o in teoria e tecnica delle comunicazioni di massa a farci su una tesi, cosa che ho proposto al professor Carlo Sorrentino.
Pausa pranzo. Sei bancari siedono a un tavolo. Tre uomini, tre donne. Bancari, non banchieri. Tutti vestiti come vuole il padrone. Mutandine con il filo interdentale, wunderbra, cravatta compresi. Bravi. Discutono. Forse ci provano. Avances. Metti che. Comprendo. Dicono di un corso di formazione obbligatorio e fuori città. Lontano. Inutile. Demenziale. Bocconiano, direi. Treno pagato? Treno pagato. Albergo pagato? Albergo pagato. Uno si vanta d’aver messo in conto alla banca non solo i 40 euro della cena, ma anche i 18 dell’aperitivo precedente. Un tempo un collega portò in redazione gli scontrini e ce n’era uno che diceva: «L’uomo non è di legno». L’editore pagò. Capita.
Molti anni fa, in una “Bustina di Minerva” su l’Espresso, Umberto Eco scrisse un pezzo che avevo ritagliato ma non so più dov’è, forse nella casa che ho comprato con la fatica d’una vita eppur più non m’appartiene avendo provato io un sentimento ambiguo ed avendo ceduto alla malattia (tranquilli, non è leucemia!). L’articolo parlava della crescita dei “canali” mediali. Sostanzialmente diceva che quando c’era solo Rai 1 in bianco e nero, trattandosi di un solo canale, in mezzo a qualche porcata, poteva finirci dentro, o passarci attraverso, anche ottima roba. Dovevi riempire un palinsesto di 12 ore, perché a mezzanotte compariva una splendida sigla con non ricordo più quale musica e un’antenna che svettava nel globo di una globalizzazione appena in fieri, e fino al mattino seguente, niente zapping. Ho accennato a quell’epoca televisiva in un altro blog intitolato Fare tv.
Daniele Pugliese, torinese, movimento studentesco in gioventù, oltre trent’anni di carriera giornalistica sulle spalle, ha all’attivo numerose pubblicazioni, da solo o con altri: una monumentale storia del Pci, un saggio sulla nascita del movimento cooperativo ed un altro sulle fortune del sigaro toscano, oltre alla curatela per conto de “l’Unità”, il giornale nel quale ha lavorato per oltre vent’anni come redattore e poi vicedirettore, di volumi sulla massoneria e sul mostro di Firenze.
Per dieci anni è stato il direttore di Toscana Notizie, l’Agenzia di informazione della Regione Toscana.