linguaggio

Affatto importante

2 maggio 2014

Avevo preso importante. E lo buttai via. Possiamo tranquillamente fare a meno di importante, mi dissi. Non è poi così importante – aggiunsi ripromettendomi che sarebbe stato per l’ultima volta – se non disponiamo di questa parola. Quello che seguì, perciò, si potrebbe dire sia stato irrilevante, o ininfluente, di scarso valore o significato, marginale forse, ma certamente non avrei più potuto dire che fosse poco importante. Non mi ero reso esattamente conto che questa stessa ultima frase non avrei potuto scriverla e mi sarei dovuto fermare a “che fosse poco”. Be’, però era poco, non molto, e perciò decisi che avrei eliminato anche poco. Di lì a un istante lo feci, impiegai proprio…, quasi niente e l’uso di quest’ultima parola mi fece sovvenire che se il niente è niente, è niente anche se non c’è, anzi per l’esattezza niente è proprio se non c’è, anche se il niente che non c’è è l’esserci o il qualcosa, entrambi contrario di niente, benché queste siano faccende d’interesse solo dei filosofi. Per non perdermi in tal digressioni da perditempo, annientato il… pensai che altrettanto, e in maniera del tutto indolore, avrei potuto fare annullando il nulla, perciò in un nonnulla, non rimase…. Mi resi conto che avevo però usato parole derivate da essa, come il verbo annullare o il nonnulla e mi chiesi quanto tempo sarebbe occorso e quale azione avrei dovuto compiere per portare a termine il mio intendimento, che era quello di privarci del superfluo, dell’eccessivo, del ridondante, in specie nel vocabolario, anzi, il vocabolario stesso, essendo superflue, eccessive e ridondanti le parole in esso contenute e i discorsi che servendoci di esse facciamo, ed ebbi come un’illuminazione, che di grammatica e sintassi avremmo tranquillamente potuto fare a meno, sarebbe stato sufficiente – e proprio solo quell’ultimo verbo appena usato, “facciamo”, lo rivelava – fare. Sì fare, non dire, né parlare, neppur scrivere, tanto meno leggere, solo fare, estensione di produrre, costruire, manipolare o quanto meno, si potesse dire!, manufare, via invece tutto il resto, e allora radon, ristrettezza, cantico, ecchimosi, scolopendra, mantecato, mentecatto e andirivieni, uap, in un colpo solo, svaniti, liquefatti, polverizzati, ridotti in cenere e… no quella parola non la poteva più dire, l’aveva già cassata, o cancellata come dicono impropriamente altri che lasciano traccia della tentata sparizione, e anzi, guarda, già che ci sono faccio dileguare anche traccia, sparizione, cassare e cancellare, uap, di nuovo, e poi via uap, e nuovo, ed anche la piccola particella di, via la particella, l’atomo, il campo gravitazionale, i quanti, i tanti, l’energia e l’ergonomia, nonché la numismatica e i sacri numi. Sparì inciucio, apericena, trinariciuto, ovviamente parola, verbo, logica, gioco. Rimasi lì senza parole, non come talvolta si dice, per testimoniar di un disagio, stavolta no, proprio depauperato, diseredato, espropriato, alla fin fine senza nemmeno la a e la m o la f per potermele costruire, reinventarle, e spartirle con qualcuno. Rimasi lì solo senza più nessuno intorno e un esile grido mi uscì dalla bocca. Quel fiato appena fu molto importante e mi consentì di ricostruire il linguaggio che avevo appena distrutto.

Prima della parola

24 dicembre 2012

Naturalmente i credenti credono che il loro dio, o chi per esso, avesse già ben chiaro nella propria testa il disegno completo e pertanto ogni linea tracciata, ogni contorno definito, ogni sfumatura impressa, così come ogni accostamento di colore e la gradazione dei toni e ciascun piccolo espediente atto a dar forma e vita a quella moltitudine, fossero preordinati, sì che le stesse parole con cui si indicano gli oggetti e l’intero reale non abbiano avuto bisogno d’un periodo di gestazione e poi d’un vero e proprio parto, e prima ancora forse di una copula, di un atto creativo, dell’innesco di una miccia.

(continua…)

Mezzi discorsi

14 agosto 2010

L’associazione è immediata. Dal post precedente, Discorsi a mezzo, a questo, Mezzi discorsi, il passo è breve. Si parla naturalmente di due cose diverse. Nel primo i discorsi ci sono stati e poi si sono interrotti e quelli che ci sono stati, per quanto proseguibili, in qualche maniera sono stati compiuti, hanno un inizio e una fine, vivono di vita propria. Anche i secondi, in realtà, sono compiuti, con un inizio e una fine e vivono di vita propria. Ma a differenza dei primi non sono stati interrotti. Più degli altri sono compiuti, con un inizio e una fine e vivono di vita propria.

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Disarmata

29 luglio 2010

Se avessimo la parola, se possedessimo il linguaggio, non avremmo bisogno di armi.

Ingeborg Bachmann

Letteratura come utopia, Milano, Adelphi, 1993, p. 16

L’indicibile

21 giugno 2010

Ludwig Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein – intorno al quale, anche, si è sviluppata la mia tesi di laurea che a qualcuno fa dire qua qua – ci ha insegnato che «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». È un saggio insegnamento che a molti sfugge. La frase, naturalmente, può essere girata e letta in mille modi e ognuno, ammesso abbia imparato a girare e a leggere, può attingere al proprio. Qui vorrei soffermarmi sulla variabile di colui il quale vorrebbe parlare di e a qualcuno, ma ciò gli è in qualche modo impedito, o vi è un ostacolo che non consente di “andare oltre”, o vi è un “oltre” talmente indefinito e vago e spostabile in ogni dove che si stenta a dargli un senso e una direzione. O, ancora, un arrugginimento sedimentatosi nel tempo per accumulo di silenzi motivatissimi ed anche benemeriti, più che rispettosi e civili, finanche amorosi. Dinanzi a tali aggrovigliamenti, a siffatti ingrippamenti, come bielle e pistoni saltati per aria o d’improvviso sottoposti ad un atrito insopportabile, all’ennesima catastrofe manifestatasi – apò-calypsein – d’un botto, il monito del filosofo, o il suggerimento se si preferisce, giunge dissetante, salvifico, a ricordarci che lo scambio di parole è solo una concatenazione, un lapillo di lava, il gemito d’una fontana o, come altrove ho scritto, un sacchetto di patatine o un cestino di ciliegie, dinanzi ai quali non si può che riconoscere che una tira l’altra, ed una volta ingerita la prima si è succubi della seconda e poi della terza e così via. Ci è stata inflitta la condanna del linguaggio – qualora non si volesse riconoscere che invece questo è il dono più grande che mai ci sia stato fatto –, più esattamente la condanna al linguaggio, al servirsene e ad esserne schiavi, e per fuggir da tale inferno o da una così misera prigione, non ci resta che appellarci all’autore del Tractatus, e con lui riconoscere che «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». A nanna, bambini, senza fiatare.