Questo blog comincia ad avere un po’ troppi anni sulle spalle, per cui ho iniziato a ragionare – con l’esperienza di chi ha reso possibile l’unificazione sotto un solo dominio dotato di logica dei 300 siti di cui disponeva la Regione Toscana nel 2007 e fin verso il 2009, poco prima che quella nullità di epigono della politica mi cacciasse per circondarsi di lacchè – di come rinnovarlo e nei progetti c’è, al posto appunto di un blog personale, un sito internet vero e proprio, più ampio ed organizzato ed aperto anche al contributo di chi vorrà implementarlo, come in parte, del resto, ho già fatto qui ma solo episodicamente.
In questo angolo del “riceviamo e volentieri pubblichiamo” o del “ti andrebbe di scrivere qualcosa per me?”, qua e là ho messo versi, testi, immagini, quadri, fotografie di amici e amiche ai quali riconosco nel loro campo specifico competenze meritevoli d’essere valorizzate. Lo faccio anche oggi pubblicando uno squisito aneddoto storico che Luisa Pece, sedicente “discreta, fidata, spiritosa, umorale, pignola sul lavoro, golosa, curiosa, camminatrice, romantica, politicamente informata”, e come minimo almeno anche traduttrice (cioè traditrice), redattrice e responsabile editoriale, ma pure amica di Maurizio Marinelli, volontaria, battagliera, attrice e scopriremo il resto, mi ha raccontato a voce qualche giorno fa accompagnandomi alla mostra sui Brueghel a Palazzo Albergati a Bologna e che io le ho chiesto di mettere nero su bianco. Ora attendo altri contributi, suoi e non solo.
A Bologna, tanto tanto tanto tempo fa, esisteva una stradina delimitata da case basse, colorate dal giallo all’ocra, dove a un certo punto si apriva il portico più stretto della città, appena 95 centimetri. Le madri di famiglia proibivano ai figli di percorrerla, mentre i padri di famiglia non disdegnavano frequentarla con una certa assiduità. La mattina, alcune matrone bene in carne si mettevano al lavoro: si spazzava la stradina, si stendevano i panni, si cantava o si piangeva, era tutto un fermento di attività. Se qualche uomo si azzardava a indugiare, spesso si sentiva apostrofare: “Và mo’ vî che adès ai ho da lavurèr. Tåurna äl träi, bèl giujèn! [vai via che adesso devo lavorare. Torna alle tre, carino!]”. Era una delle strade preposte all’attività dei bordelli e la leggenda vuole che le professioniste si affacciassero alle finestre del pianoterra mettendo in mostra seni voluminosi e materni. I potenziali clienti passavano e i più arditi … toccavano. Per questo la pittoresca stradina si chiamava “Via Sfregatette”. Un giorno, sempre secondo la leggenda, un vescovo, passando di lì accompagnato dalle autorità, chiese il nome di quella pittoresca stradina. Imbarazzatissimo, il notabile che lo accompagnava, non sapendo come cavarsela, gli disse “È così piccola, Eminenza, che è senza nome”. E da allora si chiama Via Senzanome.
Luisa Pece