Luisa Pece

Scetticismo e saponette

15 settembre 2016

Una saponetta di Marsiglia

Conoscendo il mio scetticismo e la lunga – ma non rinnegata, solo arricchita correggendo il tiro con le acquisizioni che altre menti hanno nel tempo reso disponibili – frequentazione con il materialismo storico, e di conseguenza la diffidenza verso quanto ha scarsa base scientifica e un perché che lo spieghi, Luisa era quasi sul punto di esitare quando, udito dei violenti crampi ai polpacci e ai piedi che per lungo tempo mi hanno assalito specialmente nel cuore della notte – certamente dettati da una delle malattie ricevute in dono da una natura che pare essersi ribellata a se medesima, innescando meccanismi di difesa dalle difese che essa stessa ha nel proprio patrimonio ereditario, forse nella sua essenza, quelle cioè disponibili ad impedire attacchi provenienti dall’esterno, da agenti estranei ed aggressivi –, le sembrava doveroso riferirmi del rimedio a cui sua nonna, afflitta dallo stesso problema, si era lungamente affidata, ottenendo risultati che Luisa Pece stessa chiamava miracolosi.

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Antipasto emiliano

2 marzo 2016

Luisa Pece nei panni di Lucrezia nello spettacolo teatrale in dialetto bolognese "Mei zitela che marine". Foto tratta da Facebook.

Nel post Vicino all’innominata via del 28 febbraio scorso ho accennato all’amicizia che si è instaurata e sta sviluppandosi tra Luisa Pece e me con il mezzano contributo di Maurizio Marinelli, che Luisa ha avuto tra i suoi collaboratori se non ho mal compreso nella stagione più fortunata della casa editrice Baskerville, quando cioè aveva sede in via Farini a Bologna, e la fattiva collaborazione di una rete informatica e delle sue diavolerie che consentono davvero straordinarie opportunità di scambio e condivisione impensabili in un mondo privo di tetrabyte et similia.

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Vicino all’innominata via

28 febbraio 2016

Questo blog comincia ad avere un po’ troppi anni sulle spalle, per cui ho iniziato a ragionare – con l’esperienza di chi ha reso possibile l’unificazione sotto un solo dominio dotato di logica dei 300 siti di cui disponeva la Regione Toscana nel 2007 e fin verso il 2009, poco prima che quella nullità di epigono della politica mi cacciasse per circondarsi di lacchè – di come rinnovarlo e nei progetti c’è, al posto appunto di un blog personale, un sito internet vero e proprio, più ampio ed organizzato ed aperto anche al contributo di chi vorrà implementarlo, come in parte, del resto, ho già fatto qui ma solo episodicamente.

In questo angolo del “riceviamo e volentieri pubblichiamo” o del “ti andrebbe di scrivere qualcosa per me?”, qua e là ho messo versi, testi, immagini, quadri, fotografie di amici e amiche ai quali riconosco nel loro campo specifico competenze meritevoli d’essere valorizzate. Lo faccio anche oggi pubblicando uno squisito aneddoto storico che Luisa Pece, sedicente “discreta, fidata, spiritosa, umorale, pignola sul lavoro, golosa, curiosa, camminatrice, romantica, politicamente informata”, e come minimo almeno anche traduttrice (cioè traditrice), redattrice e responsabile editoriale, ma pure amica di Maurizio Marinelli, volontaria, battagliera, attrice e scopriremo il resto, mi ha raccontato a voce qualche giorno fa accompagnandomi alla mostra sui Brueghel a Palazzo Albergati a Bologna e che io le ho chiesto di mettere nero su bianco. Ora attendo altri contributi, suoi e non solo.

A Bologna, tanto tanto tanto tempo fa, esisteva una stradina delimitata da case basse, colorate dal giallo all’ocra, dove a un certo punto si apriva il portico più stretto della città, appena 95 centimetri. Le madri di famiglia proibivano ai figli di percorrerla, mentre i padri di famiglia non disdegnavano frequentarla con una certa assiduità. La mattina, alcune matrone bene in carne si mettevano al lavoro: si spazzava la stradina, si stendevano i panni, si cantava o si piangeva, era tutto un fermento di attività. Se qualche uomo si azzardava a indugiare, spesso si sentiva apostrofare: “Và mo’ vî che adès ai ho da lavurèr. Tåurna äl träi, bèl giujèn! [vai via che adesso devo lavorare. Torna alle tre, carino!]”. Era una delle strade preposte all’attività dei bordelli e la leggenda vuole che le professioniste si affacciassero alle finestre del pianoterra mettendo in mostra seni voluminosi e materni. I potenziali clienti passavano e i più arditi … toccavano. Per questo la pittoresca stradina si chiamava “Via Sfregatette”. Un giorno, sempre secondo la leggenda, un vescovo, passando di lì accompagnato dalle autorità, chiese il nome di quella pittoresca stradina. Imbarazzatissimo, il notabile che lo accompagnava, non sapendo come cavarsela, gli disse “È così piccola, Eminenza, che è senza nome”. E da allora si chiama Via Senzanome.

Luisa Pece

Canali e canaglie

3 maggio 2010

Molti anni fa, in una “Bustina di Minerva” su l’Espresso, Umberto Eco scrisse un pezzo che avevo ritagliato ma non so più dov’è, forse nella casa che ho comprato con la fatica d’una vita eppur più non m’appartiene avendo provato io un sentimento ambiguo ed avendo ceduto alla malattia (tranquilli, non è leucemia!). L’articolo parlava della crescita dei “canali” mediali. Sostanzialmente diceva che quando c’era solo Rai 1 in bianco e nero, trattandosi di un solo canale, in mezzo a qualche porcata, poteva finirci dentro, o passarci attraverso, anche ottima roba. Dovevi riempire un palinsesto di 12 ore, perché a mezzanotte compariva una splendida sigla con non ricordo più quale musica e un’antenna che svettava nel globo di una globalizzazione appena in fieri, e fino al mattino seguente, niente zapping. Ho accennato a quell’epoca televisiva in un altro blog intitolato Fare tv.

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