In un sensato saggio pubblicato nel 1971 nella raccolta Verso un’ecologia della mente, l’impareggiabile antropologo e linguista Gregory Bateson – artefice della teoria del “doppio legame” – sostiene che da sobrio l’alcolizzato è «più sensato delle persone che lo circondano». Scavando tra le pagine di scrittori e filosofi – da Socrate a Leopardi, da Tolstòj a Montaigne – un alcolista sobrio va alla caccia di senso e logica, ricordandosi delle proprie compulsive passioni e delle emozioni che accomunano i seguaci di John Barlecorn e quanti riescono, invece, a non alzare il gomito. Se il primo passo è aver consapevolezza di quanto si sta bevendo, in queste pagine si incontra il cammino di chi beve e di quanti lo circondano. LEGGI DI PIÙ
La biografia di Primo Levi scritta da una persona che ha amato lo scrittore amando chi l’ha amato e gliel’ha fatto amare: perciò è «appassionata». In dodici condensati capitoli Questo è un uomo testimonia il valore del pensiero e della narrativa del prigioniero 174517 nel Lager di Auschwitz, insieme al debito personale dell’autore nei confronti di un maestro. LEGGI DI PIÙ
Il primo libro pubblicato dalla casa editrice TESSERE è Appropriazione indebita, una raccolta di trenta interviste realizzate per l’Unità da Daniele Pugliese fra il 1982 e il 1992 a filosofi, scienziati, intellettuali che hanno lasciato un grande contributo alla cultura e dalle cui parole ancor oggi è possibile trarre importanti suggerimenti per aprire i propri orizzonti e spalancare la propria mente. LEGGI DI PIÙ
Apocalisse,
il giorno dopo.
La fine del mondo fra deliri e lucidità
Pubblicato nella «collana coordinate» della casa editrice Baskerville di Bologna. Il libro, dalle ore 24 del 21.12.2012 e fino all’uscita del volume di carta è disponibile e scaricabile gratuitamente in formato ebook dal sito della casa editrice.LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana I venticinque» della casa editrice italo-francese Portaparole di Roma ed è acquistabile in libreria oppure online. LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana blu» della casa editrice Baskerville di Bologna, che annovera in catalogo autori quali Pier Vittorio Tondelli, Fernando Pessoa, Georges Perec ed è acquistabile in libreria oppure online.LEGGI DI PIÙ
La notizia del ritrovamento in un cassonetto a Roma, nel quartiere Parioli, di due gambe di donna presumibilmente tagliati a colpi d’ascia, mi induce a pubblicare un racconto, compreso in una raccolta non ancora pubblicata, che ho scritto nell’ottobre del 1997, prendendo spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Reggio Emilia alla fine degli anni Novanta a cui “Mattina”, il quotidiano locale distribuito insieme a “l’Unità” di cui ero vicedirettore, dette ampio spazio. Si intitola La gamba.
Sono stato invitato a partecipare – e ringrazio chi l’ha fatto soprattutto perché so essere persona degna di rispetto, che rispetto mi ha sempre portato – ad un convegno che si terrà sabato prossimo, il 27 maggio, a partire dalle 15.30, al Palazzo degli Affari di Firenze in Piazza Adua. Da lungo tempo in gestazione, è stato organizzato da tre Logge fiorentine – la “Avvenire”, la Giuseppe Dolfi e la Fedeli d’Amore – del Grande Oriente d’Italia, una delle due branche della Massoneria ufficiale italiana, nota anche come “obbedienza di Palazzo Giustiniani” per distinguerla dall’“obbedienza di Piazza del Gesù”. Il convegno ha per titolo Pregiudizio e chiarezza, gli elenchi dei massoni vent’anni dopo.
Gli elenchi a cui si fa riferimento sono quelli che comparvero nelle edicole della Toscana il 13 ottobre 1993, per la precisione 25 anni fa, in un libercolo di 112 pagine allegato al n. 233 del quotidiano “l’Unità”, il cui colophon precisava: coordinamento di Gabriele Capelli e Daniele Pugliese. Quel libretto conteneva appunto tutti i nomi degli iscritti alle Logge massoniche di Firenze e Prato, venuti all’epoca in possesso della redazione di Firenze del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e diretto da Walter Veltroni, di cui allora ero vicecaporedattore ma con la qualifica di caposervizio.
Alfredo Reichlin disegnato da Tullio Pericoli per "Repubblica"
Devo innanzitutto delle scuse ai miei lettori per la prolungata assenza da questo blog: è dovuta agli impegni che ho preso per far nascere TESSERE – l’associazione, casa editrice e rivista culturale di cui avevo dato conto nel penultimo post del 14 gennaio scorso – e per dar vita ad un’altra associazione, Sotto la Mole, che tenta di salvaguardare la memoria della stampa nata per iniziativa del Partito comunista italiano, alla quale avevo fatto accenno in un articolo del 25 novembre 2016 intitolato La tela di Vittorio per ricordare Sermonti e il suo rapporto con l’Unità (che peccato non disporre di link in rete a cui collegare questo prestigioso nome!), iniziato per volontà di Alfredo Reichlin, il due volte direttore del giornale fondato da Antonio Gramsci: dal 16 gennaio 1957, prima che io nascessi, al 9 marzo 1962, e poi dal 14 maggio 1977 al 5 ottobre 1981; e poi ancora direttore di Rinascita dal 1975 al 1977.
Reichlin è morto la notte scorsa, ed è stato proprio lui a firmare la lettera di assunzione con cui ho potuto realizzare il mio sogno giovanile rimasto immutato finora e, a questo punto, credo fin che campo: fare il giornalista proprio in quel giornale o, in alternativa, a Rinascita.
Il 15 agosto scorso, nel post intitolato Un libro per i miei lettori, annunciavo la pubblicazione in questo blog delle 30 interviste, realizzate quando lavoravo a l’Unità a grandi personaggi della cultura – Garin, Rubinstein, Haskell, Rossi Monti, Geymonat, Thom, Quine, Toraldo di Francia, Eco per dirne alcuni – che avevo assemblato con il titolo Appropriazione indebita, sottolineando in questo modo il debito agli intervistati più che all’intervistatore, e che molti miei amici, i quali avevano avuto occasione di leggerle così raccolte, insistevano perché divenissero di dominio pubblico, prendessero la forma di libro.
Spiegavo in quel post tanto i motivi della mia ritrosia ad accogliere quell’insistenza, quanto il fastidio accumulato nelle relazioni con molti editori ai quali invano ho inviato il dattiloscritto di quasi una decina di titoli che giacciono nel mio cassetto, ricevendo risposte o preconfezionate o contraddittorie, incomprensibili o non ricevendone affatto.
Vittorio Sermonti, l’intellettuale noto soprattutto per le sue letture dantesche, morto qualche giorno fa a 87 anni, ha collaborato con l’Unità tra il 1979 e il 1982, nei primi anni in cui io ho iniziato a lavorare in quel giornale dove avrei voluto terminare la mia carriera giornalistica.
A portarlo in redazione fu Alfredo Reichlin, un uomo che continua a pensare, malgrado l’età, anzi forse proprio per l’età, con grande lucidità cercando di spiegare quanto avviene intorno a noi anziché menar fendenti a destra e a manca.
Alfredo Reichlin disegnato da Tullio Pericoli per "Repubblica"
Ricordo Sermonti come un uomo gentilissimo e affabile, duro tuttavia, direi rigoroso e autorevole, ma non chiuso e presuntuoso come tanti che ho conosciuto, valgono poco e si danno un sacco di arie.
Lo ricordo per evidenziare questo suo periodo lavorativo un po’ oscurato nei coccodrilli comparsi sulla stampa, molti dei quali tesi solo a mettere a confronto le letture dantesche sommesse sue e pluridecorate di Benigni, in una polemica contro il comico pratese che sottende tutt’altro, a cominciare dall’invidia.
E per evidenziare come il giornale fondato da Antonio Gramsci – regolarmente sminuito e disprezzato per essere “l’organo” del Partito comunista, cioè una voce condizionata, succube e supina – sia invece stato non solo una fucina di idee, un’arena di scambi culturali, un autorevole quotidiano, ma anche un radar potente che ha indagato sul Paese, ne ha scoperto angoli nascosti, ha fatto emergere realtà che altrimenti non si sarebbero conosciute.
Il libro che parla di quella particolarissima esperienza che ho vissuto in gioventù è stato presentato ieri in una sala sontuosa dove per lungo tempo ho lavorato incontrando anche personalità di grande spessore, come per esempio il premier cinese Wen Jao Bao e quello israeliano Simon Perez. Denominatore comune la politica, non più praticata se non pensando, scrivendo, cercando di capire, conversando con chi capita di incontrare.
Il libro è infatti una prima ricostruzione storica del Movimento studentesco fiorentino nel quale ho militato fra il 1973 e il 1978. Si intitola Concentramento ore 9 – come la dicitura che compariva in calce ai volantini che convocavano una manifestazione dando appuntamento agli studenti delle scuole medie a quell’ora quasi sempre in piazza San Marco, divenuta, ma scritta per esteso tutta in lettera e tutta attaccata, anche il nome del primo giornale che ho diretto – e raccoglie il corposo contributo di Matteo Mazzoni e quelli di Dario Ragazzini e Sylvia Casagli.
Qualche giorno fa, il 19 settembre, era il trentunesimo anniversario della morte di Italo Calvino e Maddalena Dalla Torre – che premurosamente e con costanza mi inonda di suggestioni e stimoli all’ascolto, alla lettura e alla visione – mi ha mandato il link a un’intervista pubblicata su Rai News l’anno prima, in occasione del trentennale.
Ho raccolto, e ripubblico da oggi a puntate sul mio blog, contrassegnandoli con la sigla AI e la numerazione dei capitoli, alcune delle interviste fatte nei tanti anni che ho lavorato a l’Unità. La maggior parte di esse, è nella forma classica: domanda e risposta. Questo è il primo tratto comune che le tiene insieme. Solo in pochi casi, la forma giornalistica è diversa. La testimonianza di Mario Innamorati su una delle prime spedizioni scientifiche italiane in Antartide, per esempio, è raccontata in prima persona, quasi come un diario di bordo, perché il lettore si potesse sentire sul ponte di quella nave. Così anche il pezzo su Remo Bodei esula dalla forma classica di intervista: è il resoconto di un suo intervento a un convegno, ma il contenuto e soprattutto il «protagonista» rientravano a pieno titolo nel disegno che avevo in mente preparando questa raccolta. Idem per l’articolo con il professor Francesco Adorno.
Nei giorni scorsi, da bravo pensionato persuaso di non bruciarsi definitivamente il cervello davanti alla tv che da molti anni neanche possiedo, sono stato a sentire l’ultima conferenza del ciclo organizzato da Wlodek Goldkorn al museo Pecci di Prato e intitolato “Uomini e guerra”, nel corso del quale hanno raccontato Luis Sepulveda, David Grossman, Marco Belpoliti, Donatella di Cesare e, ultimo appunto dei conferenzieri invitati, Gad Lerner che ho avuto il piacere di conoscere alla fine degli anni ’90, quando – prima di diventare onestissimo direttore del Tg1 capace di pagare di persona per l’errore di un suo sottoposto, assumendosi la responsabilità di chi è in cima alla piramide, prassi del tutto sparita dalle scene, di qualunque tipo esse siano – condusse in Rai una trasmissione che si chiamava Pinocchio, per fare la quale chiamò, oltre a un insopportabile Mario Giordano, oggi direttore del Tg4, il Faulkner de l’Unità, Jenner Meletti appena “messo alla porta”, come tutti noi, da un editore che anche in politica si è poi votato al suicidio, ed oggi edita un foglio indegno della levatura di chi lo fondò in via Santa Maria alla Porta nei pressi di Corso Magenta a Milano il 12 settembre 1923 imponendo che non avesse «alcuna indicazione di partito. Dovrà essere – scrisse Antonio Gramsci – un giornale di sinistra. Io propongo come titolo l’Unità puro e semplice che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale».
Col senno di poi – e l’aiuto di un poderoso archivio coltivato nel corso degli anni – vien da pensare che fosse già un sogno in età giovanile, quando, corrispondente del Manifesto da Firenze, veniva baldanzoso e gioviale in visita alla redazione de l’Unità, in via Alamanni, tentando di copiare – sì ho proprio scritto copiare – uno almeno degli articoli che qualcuno di noi aveva già scritto ed aspettava di essere trasmesso a Roma per finire in pagina.
Già perché nel lontano maggio del 1987 – ad un mese dall’uscita del settimanale Anteprima, Pariscope o Time out fiorentino, pensato da Andrea Lazzeri, voluto da Gabriele Capelli e messo in mano a me perché fosse scritto, impaginato, illustrato e stampato alla tipografia Cesat di via Faenza – su un periodico a suo stesso giudizio mirato al medesimo bacino d’utenza, Metrò, scrisse un articolo intitolato Unità vo cercando che raccontava di come da poco sotto la testata del quotidiano fondato da Antonio Gramsci – ma a questa “nobile” genealogia nemmeno un accenno – fosse scomparsa la parola “organo” con cui per lungo tempo si era rimarcata non solo la proprietà del giornale, ma anche il suo scopo – la sua mission direbbero oggi – quello di essere la voce ufficiale del Partito comunista italiano.
Alcuni giorni fa ho scritto sulla mia pagina Facebook di aver fatto una piccola donazione a Wikipedia, invitando gli oltre 3.200 amici, conoscenti o corrispondenti sulla rete a farlo anche loro, accogliendo un appello nel quale si sostiene che se tutti i lettori di Wikipedia in italiano donassero 2 euro, in un’ora sola sarebbe completata la raccolta fondi mirata, si legge ancora nell’appello, a proteggere l’indipendenza di questa biblioteca dove tutti possono accedere liberamente per cercare ed imparare, senza che debbano essere mostrati messaggi pubblicitari.
La voce Wikipedia su Wikipedia spiega, ed io lo ignoravo, che questo nome etimologicamente significa “cultura veloce”, derivando dalla fusione di una parola hawaiana, wiki, che significa “veloce” e del suffisso greco pedia (παιδεία) il sui senso è “formazione”.
Cerco a caso la sua firma nell’archivio storico, preziosa, encomiabile, sana iniziativa, sopravvissuta malgrado lo scempio a cui ci è toccato assistere. Cerco la sua firma nell’archivio storico del giornale nel quale ho avuto l’onore di lavorare per più di 20 anni e il primo articolo che mi compare – ma, ripeto, si tratta solo di una ricerca a caso – è del 19 gennaio 1986.
È vero, non lo ricordavo: teneva una rubrica o, quanto meno, aveva messo in cantiere una serie di articoli, che venivano presentati in prima pagina con una scritta in negativo, bianco su nero, di traverso dentro un tondo: “Una giornata con…”.
Tendo a rifuggire dal far parte di gruppi, dall’associarmi, dal consentire che il mio nome sia inserito in una lista di aderenti, membri, affiliati. È un intendimento antico ed in massima parte rispettato, salvo poche significative eccezioni, concomitante, credo, con la dissoluzione del Partito comunista italiano, se non addirittura ai malumori che hanno contribuito a spingere verso quel dissolvimento, e concomitante con la mia partecipazione al processo di pubblicazione su l’Unità delle liste della massoneria toscana all’epoca dello scandalo P2 e con le riflessioni indotte da quanto in quell’occasione si sentì perseguitato.
Non ho difficoltà ad ammettere che tale atteggiamento sia dettato dal timore di poter essere associato a persone con cui non si vorrebbe aver (o aver avuto) niente a che fare, di essere confusi con esse, diciamo dell’effetto “far di tutta l’erba un mazzo” e, per questa strada, di sentirsi corresponsabili dei Gulag perché si sarebbe voluto una miglior distribuzione del reddito ed un minor sfruttamento delle classi inferiori, anzi, l’abolizione delle classi, o di trovarsi nelle condizioni di una inattesa difesa d’ufficio solo perché un foglietto testimonierebbe contiguità che non esistono.
È un orrore lo slogan scelto da quella cricca che, presumo, per interessi tutti propri, ha rilevato la testata del quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci – dove ho avuto l’onore di lavorare dal 1978 al 28 luglio 2000 – rimandando in edicola dal 30 giugno scorso un quotidiano che io non so cosa sia.
“Il passato sta cambiando” è lo slogan scelto dall’editore dell’attuale l’Unità (80% Piesse, circa il 20% Fondazione Eyu Europa YouDem-Unità che fa capo al Pd, 1% Guido Veneziani) e, oltre ad essere brutto e secondo me poco efficace da un punto di vista pubblicitario e promozionale – a questo dovrebbe servire quella scritta che compare su manifesti appiccicati sugli autobus della mia città – è ignobile da un punto di vista “ideologico”, una bestialità concettuale dietro la quale sembra celarsi, purtroppo, una weltanshauung che mi fa rabbrividire.
Nell’epoca in cui pensavo fosse davvero possibile cambiare il mondo e mi impegnavo con convinzione per questo obiettivo, concentrandomi sulla riforma democratica della scuola superiore, i militanti di un qualche gruppo extraparlamentare, probabilmente quelli del Pdup, in qualche maniera più legati alle tradizioni del movimento operaio italiano, quando noi della Fgci scandivamo lo slogan “W il grande partito comunista, di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”, s’innestavano nel coro e con la medesima scansione del ritmo aggiungevano: “Che cazzo c’entra il primo, con gli altri tre?”.
L’ironico controcanto mi è tornato alla mente leggendo, su suggerimento della pagina Facebook dove si sono ritrovati molti di coloro che Lavoravamo all’Unità, una lettera inviata a www.change.org, sito dove è possibile perorare qualunque causa, fare petizioni, promuovere inviti, raccogliere firme, avanzare richieste collettiva, e nella fattispecie quella che ha suscitato il mio interesse mira a far togliere il nome di Antonio Gramsci da sotto la testata de l’Unità.
Tratteggiando la figura del nuovo direttore del prestigioso Corriere della Sera, Carlo Riva su Prima comunicazione, il mensile che legge chi si occupa di informazione, pubblicità, comunicazione, editoria e dintorni o non può far a meno del gossip riguardo quarto e quinto potere, scrive che il gran giro di nomine in via Solferino «ha messo in evidenza il numero non indifferente di giornalisti che hanno avuto un passato consistente all’Unità e adesso hanno ruoli di potere, a partire dal direttore, all’interno del Corriere della Sera, simbolo dei simboli di quella borghesia produttiva a cui un tempo da militanti comunisti avrebbero altrettanto simbolicamente tagliato la testa. Ironia a parte – prosegue Riva – è la dimostrazione di come ai bei tempi l’Unità seppe qualificarsi come una vera e propria scuola di politica e giornalismo e di come alcuni dei suoi allievi migliori siano riusciti a presentarsi, una volta ripuliti dal passato ideologico, tra i migliori giornalisti sulla piazza».
Sono in un’età in cui non sarebbe peregrino immaginare se si sarà ricordati con affetto, stima e ammirazione quando sarà giunto il momento.
Non sarebbe peregrino eppure non mi è così facile, non tanto per un’assenza di momenti in cui venga da rendere plausibile quel giorno, anzi, quanto per la difficoltà davvero di essere obiettivi con se stessi e stabilire, con una buona dose almeno di approssimazione, se si è stati in un modo o esattamente in quello opposto, se si meriti memoria o ci spetti l’oblio.
In altre parole – è cosa nota – essere giudici di se stessi è pressoché impossibile, anche in un caso come il mio dove nel mio stesso nome di battesimo c’è racchiuso qualcosa che ha a che fare con la condanna o l’assoluzione, comunque sia con il verdetto di un altolocatissimo giudice.
È solo pochi giorni fa che, nel post Senza macchia, ho citato questa strofa di una canzone di Francesco Guccini: «… a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età…». In modi anche molto diversi tra loro, più o meno biasimevoli o vezzeggiabili, ma comunque stupidi, proprio stupidi. Lì mi riferivo all’ingenua stupidità, così la definisce lei stessa, che condusse Monica Lewinskij ad inginocchiarsi dinanzi al potere, e qui, invece, voglio dire della mia, dell’occhio pieno di ammirazione, e qualche stilla di invidia anche, con cui guardavo Eugenio Manca, uno dei migliori giornalisti de l’Unità che – ha scritto laconico Carlo Ricchini intorno alle 9 di questa mattina sulla sua bacheca di Facebook – è morto.
Domani Pietro Ingrao compie cent’anni. Molti ragazzi anche quarantenni e potenzialmente rottamatori, avvezzi al massimo ai Rutelli, agli Alemanno, alle Madia, alle Minetti, a cosucce insomma da due soldi ma con la griffe in bella mostra, probabilmente ignorano tutto di lui e, fossero interrogati sull’argomento, sbiancherebbero mettendo su un sorriso ebete.
Ho messo il link alla voce che gli dedica Wikipedia per chi avesse voglia di sapere qualcosa di più su di lui e, garantisco, merita, ma due tracce è bene le estrapoli qui: iscritto in gioventù al Guf, il Gruppo Universitario Fascista, già nel 1939, a 24 anni, cambia sponda e diventa antifascista, nel ’40 si iscrive al Pci, combatte nella Resistenza. Dal 1947 al 1957 è direttore de l’Unità e merita leggere il bel ritratto che Pietro Spataro, nel suo blog meritoriamente chiamato Giubberosse, gli dedica in questa veste, intitolandolo Quando Ingrao inventò l’Unità.
Com’è lontano quel 7 maggio 2010 quando accesi un fuoco e, sventolando maldestramente una coperta come ancora non avevo imparato bene a fare, levai in cielo segnali di fumo tentando di chiamare a raccoltaLa tribù di Geronimo. Così si intitolava uno dei primi post pubblicati in questo blog, con cui annunciavo che di lì a qualche giorno i pellerossa che avevano scorrazzato nella prateria de l’Unità si sarebbero ritrovati per festeggiare un gran capo indiano in procinto di compiere 90 anni.
Bruno Schacerl
Quel leggendario guerriero, Geronimo, in realtà si chiamava Bruno Schacherl e per rendergli i dovuti onori si spinsero fin qui, in una storica casa del popolo fiorentina, due direttore del quotidiano comunista del calibro di Emanuele Macaluso e, soprattutto – lucidissima mente che testimonia quanto sia stolto chi vuol rottamare gli anziani – Alfredo Reichlin. Quest’ultimo è stato senz’altro quello che ha firmato la mia lettera di assunzione, essendo stato al timone del giornale fondato da Antonio Gramsci dal 1977 al 1981, quando appunto ebbi la fortuna di iniziare a lavorare lì; l’altro, Macaluso, deve avermi invece promosso caposervizio avendo diretto l’organo del Partito comunista, dopo l’infelice parentesi di Claudio Petruccioli con lo scivolone del caso Cirillo, dal 1982 al 1986.
Vincenzo “Vicè” Vasile, illustre collega esperto in mafia, trame e misteri d’Italia vari, fine conoscitore di quella melma che collegava e collega parte della politica alla delinquenza e al malaffare, su Facebook cacchio cacchio se n’è venuto fuori con queste striminzite due righe: «questo Gramsci non lo volete nella nuova L’Unità per un “fatto politico”, o perché sarebbe il ventiseiesimo oltre la quota concordata dal Cdr?».
Evito di mescolare quello che scrivo qui nel blog con quello che ha a che fare con il mio lavoro, con ciò da cui traggo da vivere. Ma un’eccezione bisogna la faccia, perché qualche giorno fa, facendo il mio mestiere appunto, ho dato notizia delle iniziative programmate all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Firenze – San Salvi, un luogo che qui nel blog ha ricordato Juanito – in occasione del centenario della fondazione della biblioteca Vincenzo Chiarugi, il quale fu il direttore del manicomio.
In primo piano, di spalle, Gabriele Capelli
Fra le manifestazioni in programma c’era una performance che ha preso spunto da un articolo intitolato “Un cinema-teatro nasce anche per abbattere il muro dell’isolamento”, pubblicato sulla cronaca di Firenze de l’Unità il 21 giugno 1977.
Quell’articolo fu scritto da Gabriele Capelli che, come più volte ho avuto modo di ricordare anche qui, è stato il mio maestro, fino a un certo punto un grande amico, l’altro vicedirettore come me del quotidiano locale Mattina, e comunque un collega e una persona verso la quale fino all’ultimo istante della sua vita, e poi ancora dopo nel ricordo, ho nutrito stima, rispetto, affetto e gratitudine.
«Hanno ucciso l’Unità », titola l’Unità nel giorno in cui giunge la notizia che hanno ucciso l’Unità. L’Unità e con lei i colleghi che ci lavoravano. Quelli che c’erano quando c’ero anch’io.
Quelli rientrati dispiaciuti che con loro non ci fossimo più Antonio Zollo, Morena Pivetti, Andrea Guermandi, Dario Guidi, Serena Bersani, per citare quelli con cui sono rimasto maggiormente legato e in contatto e dei quali, o meglio della cui professionalità, ho una stima immensa.
Quelli rientrati contenti che qualcuno di noi fosse stato fatto fuori e, insomma, il nostro esser sommersi, fosse il loro esser salvati.
E poi quelli giunti dopo, portati da Padellaro, da Colombo, da Conchita De Gregorio o anche, diciamolo, da questo o quel segretario succedutosi alla guida di quella roba che oggi si chiama Pd, governa l’Italia e, com’è già avvenuto, quando è giunto alla mèta si scorda, dimentica, preferisce altro, tira fuori il peggio del proprio cinismo e della propria poca lungimiranza.
I pochi regolarizzati e i tanti tenuti a bagno maria, collaboratori in eterno, precari a vita, 1 euro a pezzo se va bene, firme mai lette prima.
Ho provato un gran disagio oggi leggendo la lettera del Cdr de l’Unità a Matteo Renzi che inizia con «Caro segretario…». Onde evitare nuove polemiche con Pietro Spataro e qualche altro ex collega o non ex collega del giornale nel quale ho lavorato con onore 22 anni, puntualizzo subito che il disagio è tutto mio, non deriva da un qualcosa di (per me) sbagliato in quello che i rappresentanti sindacali hanno scritto.
Le manifestazioni in piazza a cui ho partecipato e alle quali lui prendeva la parola. Una manifestazione di studenti comunisti a Bologna nel 1973 o la festa nazionale de l’Unità a Firenze nel 1975 e sempre a Firenze il congresso nazionale della Fgci o quello di qualche anno prima a Genova.
Non ho proprio la mente tarata per le ricorrenze. Per cui devo ringraziare mio fratello Andrea, erede delle passioni politiche di due generazioni, che in un qualche file riposto in un qualche angolo mi ha sovvenuto che oggi dieci anni fa. Mi sembra ieri. Mi sembra ieri, anzi, molto tempo prima, non oggi dieci anni fa quando Gabriele Capelli ci ha lasciato, ma il primo giorno che impugnando un puzzolente pennarello nero fece un sacco di freghi su quelle cartelle che gli consegnai, primordiali manufatti d’un mestiere che per intero ho imparato da lui. E gli stessi bérci e le bestemmie con cui accompagnò quella carneficina di righe e parole e frasi, una vera merda quella breve, quel trafiletto, quel pezzo, forse lo stesso necrologio che ho scritto per dirgli addio il 22 aprile del 2004: «Contro la bestialità gli stessi dèi lottano invano», un verso di Schiller anche quello insegnatomi da lui per infondermi un po’ di coraggio o quanto meno la capacità della rassegnazione. Un rapporto non facile il nostro, di virili durezze, o esposizione di petto, forse qualche ripicca, qualcosa addirittura di non ammissibile, eppure tenace, non escludo con malumori talvolta e forse anche questo ha contato nel tenermi in un margine a cui non mi sottraggo e neanche lui, penso, l’avrebbe fatto. Sì, mi piacerebbe che un giorno qualcuno, fuori dalle agiografie, tentasse di rendere omaggio a Gabriele raccontandolo con la sintassi asciutta alla quale ci ha abituato, a quel sottrarsi dallo scrivere che ci ha privato di un pezzo di lui. E nel farlo mi chiedesse i miei aneddoti di tutti quegli anni assieme, pieni di durezze e, da parte mia, di un grande affetto.
La redazione de l’Unità di Torino nel 1947, credo. Il secondo da sinistra in basso è mio padre, il primo a destra in alto Andrea Liberatori che a sedici anni mi chiese: “Davvero vuoi fare il giornalista?”. Devo tutto a lui.
Domani l’Unità compie 90 anni. Ci sono giornali più vecchi e molti più giovani. Ma non credo esistano altri giornali dichiaratamente “politici” – di più, un organo di partito – capaci di essere autorevoli, e a tutti gli effetti, un grande giornale com’è stato l’Unità.
Su Il Fatto Quotidiano, del 21 dicembre Andrea Scanzi ha intervistato Walter Veltroni (Certo. La politica è una missione laica, nobilissima. Che Berlinguer ha perfettamente incarnato) e la notizia, in altre parole la ragione per cui l’intervista è stata fatta, è contenuta alla fine del cappello iniziale e nella prima risposta: l’ex direttore de l’Unità, vicepremier, sindaco di Roma, segretario del Pd sta per terminare un film dedicato a Berlinguer.
«Si intitolerà Quando c’era Berlinguer – dice Veltroni – e ha tre piani narrativi: immagini di repertorio anche inedite; interviste; e riprese da me effettuate, però senza attori. Non so se uscirà anche al cinema, di sicuro verrà trasmesso a giugno da Sky per il trentennale della scomparsa».
Sullo sfondo dei ragionamenti fatti – in maniera quasi scherzosa e sul filo dell’irriverenza nei confronti di un’amica con cui ho effettivamente condiviso riflessioni relative all’uso delle parole io, tu, noi e l’altro – riguardo l’individualità, l’appartenenza e la comunità, pubblicati nel post Quel pronome pleonastico, c’è un’altra questione ed anch’essa mi ha indotto a soffermarmi sull’argomento e proporlo al lettore, seppur, come ho scritto, in una chiave quasi ironica e sbarazzina. L’altra questione è quella dell’unire e del dividere, cioè del cooperare e del combattersi, della pace e del conflitto, delle alleanze e delle contrapposizioni, del rendersi responsabili e del sottrarsi alle scelte.
Domani, domenica 30 giugno, sarà l’ultimo giorno di uscita delle cronache dell’Emilia-Romagna (Bologna) e della Toscana (Firenze). Da quel che si sa, resteranno le due redazioni ma i redattori emiliano-romagnoli e toscani contribuiranno alla realizzazione del giornale nazionale, forse dell’edizione on-line e forse alla stesura di un settimanale in uscita, pare, da settembre.
La prima pagina de l'Unità del 6 luglio 1978, primo giorno in cui ci ho scritto
Il mio primo editore è stato il Partito comunista italiano. Era il proprietario del suo organo di informazione, l’Unità, il giornale fondato nel 1924, lo stesso anno in cui Arthur Schnitzler pubblicò La signorina Else, da Antonio Gramsci, un intellettuale al cui modo di lavorare, desunto da ciò che ha scritto e da come lo ha fatto, ho sempre guardato con grande attenzione.
Avrei volentieri compiuto – con orgoglio e determinazione, rinunciandovi solo per via Solferino, piazza Indipendenza o corso Marengo – l’intera mia carriera professionale sotto quella testata, che solo nel 1991 ha abbandonato la specifica di organo del Pci preferendo l’omaggio al proprio fondatore, ma il massacro a cui la nuova proprietà – palazzinari e farmaceutici – e gli ultimi direttori – pescati fuori dal corpo storico della redazione – la sottoposero, benché in 123 nel 1998 ci fossimo autoridotti lo stipendio (contratto di solidarietà), portò nel 1999 prima alla chiusura delle redazioni di Bologna e Firenze e il 28 luglio 2000 alla cessazione delle pubblicazioni.
Trovo molto grave, e biasimevole, che uno per tanti anni impegnato nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci, ed in particolare a Firenze, non sapesse, e solo oltrepassata da un pezzo la cinquantina ne sia venuto a conoscenza, che il nipote della sorella di quello straordinario personaggio della storia italiana, sia nato, abbia studiato e ora viva proprio all’ombra del Cupolone del Brunelleschi. Perciò, prima di dire un paio di cose su un libro recentemente uscito da Feltrinelli che si intitola Nino mi chiamo, bisogna far ammenda, percuotersi un po’, stringere i lacci del cilicio e cospargersi il capo di cenere. Gravissimo.
Politica e società.it è il sito dell’omonima associazione, fondata da Vannino Chiti, di cui sono stato direttore responsabile fino a qualche mese fa, lasciando poi l’incarico che è stato assunto da Paolo Ranfagni. Sito per il quale ho scritto questo articolo intitolato Contro la mediazione rimossa: idee, identità, dialogo. Riflessioni su un articolo di Michele Ciliberto:
Giulietta Masina, una delle 101 bolognesi raccontate da Serena Bersani
Dopo domani sera, venerdì 24 agosto, alle 21, alla libreria della Festa al Parco Nord di Bologna, che, da quel che ho capito, lì si chiama ancora Festa de l’Unità, Mara Cinquepalmi e Davide Di Noi presentano il libro 101 donne che hanno fatto grande Bologna (Newton Compton, pp. 288, € 14,90). L’ha scritto Serena Bersani.
Quando arrivai a Bologna nel gennaio del 1994, mandato da Walter Veltroni a rimotivare una redazione che, dopo antichi fasti, era lacerata, rancorosa e demotivata, mi fu detto che la cronaca nera spicciola, il giro di tutti i giorni in Questura, era affidato a una collaboratrice esterna, la quale, ovviamente, di lì a poco avrebbe potuto far causa al giornale e pretendere di essere assunta, nel momento in cui si cercava di far tornare i conti di un giornale su cui gravavano (e sarebbero gravate ancora) alcune miopie manageriali, la grandeur di qualche direttore più attento al proprio futuro politico che alla salvaguardia di un importante mezzo di informazione capace di orientare il popolo di sinistra, il gioco dei pani e dei pesci con le finanze di un partito che da poco aveva visto chiudersi la fontana rifornita ad Est.
Qualcuno era comunista. E stava dalla parte dei lavoratori. Ho pianto quando un’amata persona mi ha regalato quella canzone di Giorgio Gaber. Ho pianto a sentire «Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona». A dirotto a sentire «Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri».
Lacrime a parte, versate e fatte versare, si è anche quel che si è stati. Se aveva ragione un amico perduto per strada a dire che non sarai mai se non sei, è anche vero che non sarai mai quello che non sei stato. E mi sa che, con tutte le distanze prese nel tempo, comunista lo sono ancora. E ancora dalla parte dei lavoratori.
Era il 12 maggio quando ho scritto un post intitolato Una “Mattina” appena alzato nel quale mettevo in guardia i colleghi che lavorano nelle redazioni di Firenze e Bologna dei rischi a cui stavano andando incontro e che oggi si mostrano esser diventati realtà: qualche mese di gloria e poi giù la chiusura e il licenziamento.
Si legge sul sito del giornale fondato da Antonio Gramsci in data 16 settembre 2010: «l’Unità entra in sciopero due giorni, oggi, giovedì, e domani venerdì 17 settembre. Lo ha deciso con un voto unanime l’assemblea di redazione contro la minaccia di sospensione, annunciata dall’azienda al comitato di redazione, delle pubblicazioni delle edizioni locali della Toscana e dell’Emilia Romagna a partire dal 15 ottobre. Il giornale non sarà in edicola domani (venerdì) e sabato. Il sito on line non verrà aggiornato nelle stesse giornate: venerdì 17 e sabato 18 settembre. l’assemblea di redazione de l’Unità»
Avevo lasciato da parte l’Unità di sabato 24 scorso, sulla quale Moni Ovadia ha scritto un bel pezzo, come molti dei suoi, intitolato Il vuoto delle religioni.
Condivido buona parte del suo pensiero ma mi preme evidenziare queste poche significative frasi: «Il vero problema è che le istituzioni religiose non hanno saputo cogliere le preziose opportunità offerte dal formarsi di società democratiche e aperte per farsi maestre di una spiritualità laica fondata sull’etica del primato della coscienza, della libertà, dell’uguaglianza della giustizia sociale, dell’amore. Hanno continuato a baloccarsi col potere per garantirsi le solite rendite di posizione, o si sono accaniti con furori normativi sui i presunti fondamenti naturali della sessualità, non solo manifestamente falsi ma persino ridicoli, hanno preteso di confinare la famiglia entro schemi storicamente frusti, la famiglia, una struttura sociale in evoluzione e in particolare negli ultimi lustri in impetuosa evoluzione. Da tempo non esiste un solo paradigma di famiglia ma molti modelli di famiglie. Le istituzioni religiose si ostinano a pretendere il potere della verità assoluta su l’origine della vita, sul senso ultimo della morte e solo a parole accettano il confronto laico delle opinioni sui grandi temi della bioetica. Ossessionate dal monopolio della verità, le religioni hanno abbandonato l’uomo al culto di Mamona».
I giornali oggi riferiscono, ma con un certo scetticismo, delle dichiarazioni del presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu in merito alle stragi di mafia dei primi anni Novanta. Lo scetticismo si limita a far sentire anche il controcanto, chi cioè, pur non escludendo contaminazioni, coperture e misteriose relazioni, invoca la cautela nel giudizio e richiama all’obiettività dei fatti così come essi traspaiono dagli atti giudiziari. La prudenza non è tanto quella di Vincenzo Scotti, ministro dell’interno nel 1992, ma significativamente quella del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso che sul Corriere della Sera afferma: «Le teorie sono belle, ma abbiamo bisogno delle prove. Le ipotesi costruite su tanti fatti non hanno consentito di trovare la prova penale, che è personale».
Silvia Garambois, collega e amica e forse parente, ha diffuso ieri la notizia della morte di Alceste Santini, a lungo vaticanista de l’Unità e probabilmente longa manus di Enrico Berlinguer nelle segrete stanze vaticane. Tutti i colleghi intervenuti sulle pagine di Facebook di Silvia – Antonio Cipriani, Monica Ricci Sargentini, Marco Sappino, Nicola Fano, Emanuela Risari, Giancarlo Summa, Anna Tarquini, Bruno Ugolini, Matilde Passa, Omero Ciai, Toni Fontana, Natalia Lombardo, Fabrizio Roncone – ne hanno sottolineato le doti umane prima ancora che professionali, e aggiunte a queste quelle politiche o “diplomatiche”. Si potrebbe insomma sospettare – e lo dico con ammirazione, rispetto e riconoscenza e sia chiaro senza alcun intento offensivo o denigratorio – che Alceste fosse quasi, oltre a una gran brava persona e a un collega stimabile, un buon agente dei servizi segreti.
Che differenza c’è fra il post di un blog personale e l’articolo di un giornale? Si possono scrivere entrambi con lo stesso scrupolo e lo stesso zelo? Si può, come ci ha insegnato Raymond Queneau in Esercizi di stile, usar per ognuno di essi una forma diversa che dica le stesse cose ma abbordandole da punti di vista diversi? Mi son fatto queste domande riflettendo sulle considerazioni che il caporedattore centrale de l’Unità all’epoca in cui io vi entrai, lontano 1978, dopo avermi chiesto ed ottenuto una sentita e generosa mano a riempir la sala dove nelle settimane scorse si sarebbero festeggiati i novant’anni di un illustre giornalista – quasi 2.000 e-mail inviate e quasi 600 accessi all’articolo pubblicato sul blog –, alla richiesta di presentarmi il collega che non avevo avuto l’opportunità di conoscere, se non vedendolo qualche volta gironzolare nei corridoi della redazione, si è schermito prima, ha svicolato poi, infine mi ha detto che avevo mescolato in quelle parole troppo di mio insieme al tributo e all’informazione dell’evento.
Pietro Spataro, a cui Concita De Gregorio ha affidato il coordinamento delle iniziative speciali de l’Unità – in genere un ruolo per togliersi di torno qualcuno, ci son passato anch’io e conosco qualche altro collega in analoga posizione –, dovrebbe essere stato l’ideatore dei nuovi dorsi regionali del giornale fondato da Gramsci nel 1924, un tempo organo del Partito comunista italiano fin che questi non defunse. Sono dei tuorli che stanno nell’albume del giornale nazionale a cui fa da guscio la prima pagina, con gli strilli, i richiami e l’apertura, quasi sempre un’immagine e un titolo più che un testo – ah immagine, immagine!
Pietro Spataro è anche il nocciolo di un frutto che dentro quel giornale sta cercando, mi sa un po’ a fatica, di dar un po’ di spazio alla memoria, al ricordo, alla riconoscenza, alle cose come stanno non sempre e solo come uno vorrebbe che stessero o siano state. Intendo dire che Pietro è quello che dentro al giornale – non fuori come noi –, presumo per un debito di riconoscenza e senso di restituzione, sta cercando di dar fiato a una testimonianza dinanzi a un uomo che ci ha insegnato molto, che lo si abbia conosciuto personalmente o solo letto come me: Bruno Schacherl.
Domenico Mugnaini è un gran bravo giornalista, uno dei migliori che io conosca. È anche un grande amico. So di poter contare su di lui e lui su di me. Lui, da buon democristiano, ha iniziato a Il Popolo, io, da buon comunista, a l’Unità. Seguivamo insieme il Consiglio comunale quando sindaco di Firenze era Gabbuggiani, se non ricordo male. Poi ne abbiamo fatte di cose. Lui è stato una trottola. Ha girato più redazioni di quante femmine mi abbiano reso felice. Su molte cose la pensiamo esattamente alla stessa maniera, su altre ognuno ha la sua idea ed è difficile schiodarcela. Talvolta litighiamo e lo facciamo con passione, quasi come Peppone e Don Camillo. Direi che entrambi abbiamo imparato ad ascoltare, cosa proficua in questa professione.
Sandro Rossi è stato mio compagnuccio di banco e di merende agli eroici tempi de l’Unità in via Alamanni. Un giorno se ne andò via di casa portandosi dietro solo le sue Lacoste. Poi soffiò la fidanzata a un amico e con lei ha passato l’intera vita facendoci un figlio dal bel nome. Poi ci ha tradito tutti per andarsene a Milano da Panerai e lì è diventato un giornalista di spessore di quelli che sanno tutto di finanza e di come deve viver bene un uomo elegante, ricco, di class. Un giornalista di spessore lo era anche prima, ma lì caporedattore fin su a fare il direttore.
Poi stanco delle nebbie padane se n’è tornato nella sua Toscana, nei dipressi della città che ospita il Monte dei Paschi, ambiente a cui Sandro dev’esser sempre stato vicino. E qui ha preso in mano le redini di un piccolo quotidiano il cui editore in passato ha cercato di farmi la festa e questo non sta bene. Il giornale che Sandro, con le mie congratulazioni, dirige si chiama Il Nuovo Corriere di Firenze, per distinguerlo dal Corriere fiorentino che ha alle spalle la portaerei della Rcs. Be’, per farla breve, Sandro oggi, cioè ieri, ha deciso di sbattermi, con altri in prima pagina. Tuona l’apertura del suo giornale: Paperoni al lavoro negli uffici pubblici. Ecco quanto guadagnano i dirigenti di Regione, Provincia e Comuni.
Il 14 maggio, venerdì prossimo, alle ore 16, lo stesso giorno in cui Ledo Gori, capo di Gabinetto del Presidente Enrico Rossi, mi dirà come potrò in futuro esser utile loro e al mio decennale datore di lavoro, al glorioso circolo Vie Nuove in viale Giannotti a Firenze, si festeggeranno i 90 anni di Bruno Schacherl, cognome impronunciabile ma pronunciato benissimo da una sterminata selva di suoi estimatori.
Personalmente ho iniziato a stimarlo leggendo un settimanale, di cui si sente una grande mancanza, sul quale leggevo, leggevo, leggevo quando andavo al liceo e all’Università: Rinascita. Ne possiedo, ma rigorosamente a casa dell’ex moglie, la collezione intera, dal primo all’ultimo numero, così come de Il Politecnico fondato da Elio Vittorini, di cui Palmiro Togliatti, che invece aveva fondato Rinascita, ebbe a dire: «Vittorini se n’è ‘ghiuto e soli ci ha lasciati». Il cinismo d’alemiano e certo disprezzo per l’intelletto affonda lì, anche se io comprendo i difetti di questi sporchi intellettuali come me che, qualcuno, vivente e amministrante un po’ provincialmente, ancora vorrebbe mandarci in Siberia. Direi che all’epoca Bruno Schacherl, nato a Fiume nel 1920, studente prima all’Ateneo di Padova ma poi laureatosi a Firenze con Giuseppe de Robertis, di Rinascita fosse il caporedattore centrale, e tra i suoi grafici ci fosse Maria Luisa Grossi che sarà presente alla festa e fosse ancora tra noi Ilario. Lo saprebbe dire con maggior precisione Carlo Ricchini, al quale devo la maggior parte delle informazioni che sto scrivendo e che è stato il primo caporedattore centrale de l’Unità a cui la sera, quand’ero di sommario, chiedevo i titoli della prima pagina per farli stampare sulla locandina dal mitico sor-Mario che faceva, appunto il sommario. Mi son preso tanti di quei vaffanculo che la metà basterebbero, ma qualcuno, Carlo, te n’ho anche mandato, o forse erano accidenti.
Sono, ancora per poco, un uomo di potere: ho quattro segretarie. In realtà fanno le segreterie di redazione e lavorano per 17 giornalisti e 13 redattori web, non solo per me. Meglio: con me. E nessuna che si sia mai seduta sulle mie ginocchia. Una di loro, la Rita, qualche giorno fa mi ha mandato un commento a un post del blog gulp gasp, che mi son rifiutato di pubblicare, censurandola, e spiegandole perché lo facevo. Questa mattina, mi ha spedito un messaggio di posta elettronica. Io le ho chiesto se voleva che lo mettessi sulla piazza telematica e lei ha detto sì, senza farci neanche dell’editing. È comprensivo di un link a youtube perché ormai tutta la redazione di Toscana Notizie è multimediale.
Lo pubblico così come mi è arrivato:
…disse il maestro “ti auguro di avere i punti di vista delle rane”
Alla festa nazionale de l'Unità, Tirrenia, Pisa, 1981. Da destra: Myosotis, cioè ricordati di me, perché non mi ricordo il suo nome; Gabriele Capelli; Vanja Ferretti, all'epoca inviata de l'Unità, poi caporedattore prima di me, di Rocco Di Blasi e di Giuliano Musi de l'Unità di Bologna; Marco Ferrari; direi un giovanissimo Luciano De Majo; Paolo Maggi ed io.
Non sono mai stato attento alle ricorrenze. Oggi poi che le mie agende son quasi tutte andate in tilt nell’indecisione fra carta e chip… Così di mio non mi sarei ricordato che oggi è il sesto anniversario della morte di Gabriele Capelli. I neanche più tanto giovani colleghi rimasti all’Unità di Firenze, che pur son parecchio distratti su molte cose, come spiegavo qualche giorno fa a Wladimiro Frulletti, se lo sono invece ricordato e li ringrazio o mi complimento con loro.
Domenica andrò a iscrivermi a una sezione dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia. Avrò in tasca quella tessera, io che ne ho sempre volute aver poche, se non quella dell’Ordine dei giornalisti, che ho cercato di onorare come dopo un giuramento sulla Costituzione o a Esculapio, venendo meno solo una notte che ero ubriaco. Ho avuto anche quella della Fgci e poi del Pci, ma di questo, magari, scriverò un’altra volta. Ora è più importante la questione dell’Anpi.
L’ho già scritto, ma lo ripeto, per lanciare un appello a tutti. Oggi ce n’è bisogno. Ho accettato il consiglio che la scrittrice Simona Baldanzi ha dato domenica scorsa sulle pagine fiorentine de l’Unità: invita a metterci un po’ più di passione quest’anno per il 25 aprile. «Perché – scrive – dobbiamo come seminarci dentro, prenderci cura del nostro antifascismo, affinché il raccolto non ci deluda e sia sufficiente tutto l’anno».
In molti me l’hanno chiesto: dove posso trovare il libretto che l’Unità pubblicò molti anni fa con le liste di tutti i massoni toscani? La mia risposta è sempre stata: alla Biblioteca nazionale, penso. O: nel sito de l’Unità, se Concita De Gregorio lo ha fatto. Ma lei, per ora, non l’ha fatto. Allora ho chiesto a un amico di scannerizzare il libretto e oggi lo ripubblico. Ne sono stato il curatore. Ci abbiamo lavorato in tanti. Gabriele, Giorgio, Piero, Susanna, Luca e io sicuramente. Tremavamo. Era difficile. Avevamo coscienza, e ci interrogavamo sette volte sette, prima di mandare in stampa. Eravamo aperti, lasciavamo spazio alle repliche, davamo modo di difendersi, ma eravamo risoluti, convinti, decisi. Ci siamo lacerati le budella. Ma l’abbiamo fatto. Per chi non sa dove altrimenti trovarlo, eccolo qui: il libretto de l’Unità sulle logge massoniche in Toscana. Vorrei ricordare: massoni si è per sempre, come i diamanti. Tuttalpiù si va in sonno.
Non ho mai fatto tv. Dico a me stesso che non saprei farla, ma forse è una delle tante sottovalutazioni che hanno accompagnato la mia vita. L’unica sarebbe provare. Ma non ci tengo molto. D’accordo con l’amico Piero Nacci, uno dei giornalisti più “fatti” che io abbia mai conosciuto, ritengo addirittura che il tramonto del giornalismo abbia una data d’inizio: le prime trasmissioni di Minoli, la tragedia di Vermicino (continua…)
Fra il 10 e il 13 gennaio scorsi, alla Scuola di Musica di Fiesole, si sono festeggiati i 90 anni di Piero Farulli. Non sto a dire chi è Piero Farulli, tanto mi sembra noto. Ma siccome non è detto che tutti lo sappiano invito qualcuno più esperto di me a scrivere la voce vergognosamente mancante di Wikipedia sul Maestro. Coraggio. Il Quartetto in Mi bem. Magg. op. 47 di Robert Schumann eseguito il 10 gennaio al mattino da Andrea Lucchesini – che finalmente, grazie a Fiamma Ciotti, ho avuto il piacere di conoscere – , Antonello Farulli, Massimo Quarta e Andrea Nannoni, ha letteralmente fatto venire i brividi (Consiglio di ascoltare la versione del mio musicista preferito, Uri Caine, in Love Fugue). Ma anche la Sinfonia concertante per violino, viola e orchestra in Mi bem. Magg. Kv364 di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguita il 12 gennaio dinanzi al Maestro dal vecchio amico Tiziano Mealli, dal vecchio compagno Antonello Farulli e dal giovane, bello e bravo Stefano Farulli, ha fatto venire i brividi.
Racconti di Daniele Pugliese, direttore di Toscana Notizie
Italo Calvino
(Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 01 feb – Un pizzico di Italo Calvino e delle sue descrizioni minuziose, scientifiche e graffianti. Una spruzzata di Joseph Conrad, del suo gusto per l’esotico e per la crudezza dei fatti. E in aggiunta un po’ di quel gusto per l’assurdo razionale e per i paradossi senza risposta tipico di Dino Buzzati. (continua…)
Questo il testo originale dell’articolo pubblicato da “Il Manifesto”, edizione di Firenze, il 13 settembre 2009, dopo il concerto di Patti Smith, 30 anni dopo.
Giovedì prossimo Firenze ospita, in piazza Santa Croce, un concerto di Patty Smith, a 30 anni di distanza da quello che la rock star americana tenne, nell’ambito della festa dell’Unità, allo stadio Artemio Franchi.
Gabriele Capelli, leggendario ed indimenticabile caporedattore dell’Unità di Firenze, mi spedì lì, insieme ad altri colleghi, a scrivere del concerto benché fosse solo da un anno che collaboravo, senza dignità di firma, al giornale: tuttavia ero un “figgicciotto” “fricchettone” e questo era un buon motivo per farmi scrivere.
Daniele Pugliese, torinese, movimento studentesco in gioventù, oltre trent’anni di carriera giornalistica sulle spalle, ha all’attivo numerose pubblicazioni, da solo o con altri: una monumentale storia del Pci, un saggio sulla nascita del movimento cooperativo ed un altro sulle fortune del sigaro toscano, oltre alla curatela per conto de “l’Unità”, il giornale nel quale ha lavorato per oltre vent’anni come redattore e poi vicedirettore, di volumi sulla massoneria e sul mostro di Firenze.
Per dieci anni è stato il direttore di Toscana Notizie, l’Agenzia di informazione della Regione Toscana.