Marco Revelli
29 agosto 2016
Vannino Chiti
Ho tenuto sul comodino a lungo, per troppo tempo mi viene da dire, tra i non pochi libri che, per piacere o monito interiore, mi riprometto di leggere, Vicini e lontani (Donzelli, pp. 188, € 19), l’ultima fatica di Vannino Chiti, (www.vanninochiti.com), senatore della Repubblica italiana, a cui mi lega un antico rapporto fatto di “stima” e “affetto”, come lui stesso ha avuto occasione di dire nel corso della presentazione del mio Sempre più verso Occidente in una bella libreria di Pistoia, lo Spazio di via dell’Ospizio.
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15 settembre 2013
Sono stato invitato, in seguito alle mie considerazioni sull’ateismo del 22 luglio scorso, a riproporre e avviare un confronto sui temi che Repubblica ha raccolto in una serie di interviste accorpate sotto la parola chiave “Dì qualcosa di sinistra”, avviate da un articolo di Michele Serra del 16 luglio scorso. Mi ero ripromesso di rifletterci sopra ed eventualmente intervenire in questo blog sull’argomento, e così ho raccolto ad uno ad uno gli interventi pubblicati.
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6 dicembre 2010
XX. Tracce di rivelazione
Friedrich Nietzsche
Abbiamo fatto cenno alle riflessioni di Asor Rosa sull’Apocalissi e il destino dell’Occidente dopo la guerra del Golfo. Ci sono in quel libro argomentazioni che possono essere preziose per chi voglia tentare di dar vita a un nuovo paradigma della politica.
Già nell’introduzione ci mette dinanzi al rischio che corriamo di restare attoniti, paralizzati, inoperativi. Scrive:
Io non dico: non è più possibile operare. Io dico: non è più possibile operare, se alcune condizioni preliminari e profonde, anche pre-politiche, non sono ripensate e ricostruite[1].
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5 dicembre 2010
Alberto Asor Rosa
XIX. Una proposta politica
Fin dalle prime righe di questo testo si è voluto evidenziare alcuni aspetti critici nei confronti del libro di Revelli, pur condividendo in pieno il fatto che sia stato scritto, le motivazioni di fondo che hanno indotto a scriverlo, gli obiettivi per cui evidentemente è stato scritto, ed anche la forza delle argomentazioni e dei materiali a cui si è attinto per scriverlo.
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4 dicembre 2010
XVIII. La politica degli impolitici
Hannah Arendt
Se, in tempi di accreditato revisionismo e di opportunistici pudori “politically correct” il riferimento a Lukács e a Lenin dovesse risultare esageratamente blasfemo, si possono trovare altrove riflessioni – di cui abbiamo già dato conto – che inducono a considerazioni similari.
Scriveva Primo Levi nel racconto Vanadio compreso nella raccolta Il sistema periodico:
Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada: perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi[1].
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3 dicembre 2010
XVII. Consigli per gli acquisti
Vladimir Ilic Ulianov Lenin
Nel capitolo XIV si è parlato di acquirenti e venditori, di produttori e consumatori come di due fluide classi che sempre più tendono a contrapporsi. In questa contrapposizione spesso non riescono nemmeno a identificare l’altra come “altra”, come “l’altro”, come il non-sé. Ma il fatto che non riescano a “identificarla”, non impedisce che l’“avvertano”, almeno emotivamente, come tale.
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2 dicembre 2010
XVI. Leggi, diritti, giustizia
Si è qui parlato di “prezzo giusto”. E sul tema della giustizia merita forse spendere qualche parola. Ad essa dedica alcune pagine anche Revelli, mettendo a confronto la politica degli antichi e quella dei moderni, la giustizia appunto e la forza. Revelli cita il celebre ed attualissimo brano del De civitate dei di sant’ Agostino:
Socrate
Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà i regni, se non bande di ladroni? E che cosa le bande di ladroni, se non piccoli regni? Anche una banda di ladroni è, infatti, un’associazione di uomini, nella quale c’è un capo che comanda, nella quale è riconosciuto un patto sociale e la divisione del bottino è regolata secondo convenzioni primieramente accordate. Se questa associazione di malfattori cresce fino al punto da occupare un paese e stabilisce in esso la sua propria sede, essa sottomette popoli e città e si arroga apertamente il titolo di regno, titolo che le è assegnato non dalla rinuncia alla cupidigia, ma dalla conquista dell’impunità.
Sant'Agostino
Intelligente e verace fu, perciò, la risposta data ad Alessandro il Grande da un pirata che era caduto in suo potere. Avendogli chiesto il re per quale motivo infestasse il mare, con audace libertà, il pirata rispose: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con un piccolo naviglio sono chiamato pirata, perché tu lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore»[1].
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1 dicembre 2010
XV. Ritorno a Hobbes
Fin qui il pensiero di Revelli e degli autori mediante i quali potremmo trovare, volendola cercare, la «politica del futuro».
Karl Marx
Condividendo l’obiettivo – ancorché, come detto, secondo una sfumatura leggermente differente, la quale parte dalla costatazione che, ragionando di politica, se ne può semmai trovare una per il presente, e solo quella, niente di più, che per comodità ora chiameremo la “politica cercata” – proviamo a portare altra acqua al mulino per vedere se, uniti gli sforzi, si giunge a una qualche mèta da cui non ne derivi «una sconfitta per tutti». Il punto di partenza allora è, a giudizio di chi scrive, il «paradigma politico dei moderni», o meglio, per essere più precisi, il «paradigma politico».
Si è fin qui sostenuto che quello indicato da Revelli, ovvero sia il paradigma hobbesiano, non sia in realtà quello su cui si è retta la politica negli ultimi quattro secoli. Purtroppo. Ma non è così. È stato forse il paradigma su cui si sono fondati gli Stati moderni, ma non quello che ha regolato i rapporti tra gli esseri umani. E la politica, appunto, non è altro che la cornice che regola i rapporti tra gli esseri umani.
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30 novembre 2010
XIV. Verso un nuovo paradigma
Elie Wiesel
Revelli, dunque, auspica – o sollecita o pretende o invoca, quasi supplica – ma non elabora, non propone un «nuovo paradigma [...] per una politica dell’“al di là”»[1].
Mette infatti in guardia dalle minacce che si addensano sulla politica «se non si riuscirà a elaborare in fretta, per lo meno un abbozzo, di “nuovo paradigma” [...] che sappia misurarsi in forma meno distruttiva del passato – nel nuovo spazio che siamo chiamati ad abitare – con la questione esplosiva del Male [... ed elaborare] un’inedita teodicea all’altezza della sfida (disumana) dei tempi»[2].
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29 novembre 2010
XIII. Nei meandri della globalizzazione
Norberto Bobbio
Secondo Revelli, dunque, l’argomento tecnologico sostenuto da Beck e quello antropologico espresso da Balducci, conducono a considerare obsoleto il «paradigma politico dei moderni» e a questi due argomenti se ne aggiunge un terzo: quello geopolitico, fondato sulla considerazione che la globalizzazione, intesa come fenomeno assai più profondo di quello economico-finanziario – la mondializzazione dei mercati, delle merci e dei capitali – «capace di coinvolgere e mutare le coordinate essenziali della mentalità collettiva e dell’essere sociale»[1], rappresenta una sconnessione, o se si preferisce, una «rivoluzione spaziale».
… un mutamento dello statuto stesso della spazialità, che introduce un tipo di cesura – una svolta, appunto, di natura epocale –, paragonabile a quelle che spezzano il tempo periodizzandolo. Distinguendolo in differenti “epoche”.
Lo “spazio sociale” della globalizzazione – in ciò sta il suo carattere rivoluzionario, che lo rende diverso da tutto quanto è stato finora – è uno spazio globale (come dice la parola stessa). Dunque uno spazio “totale”, che coincide, senza apparenti residui, con l’intera estensione del pianeta (con il tutto spaziale che possiamo esperire); che esaurisce, per la prima volta nella storia, tutto lo spazio praticabile, trascendendo (e surdeterminando) ogni altro spazio “parziale”. Il fenomeno è percepito (e tematizzato), in prima approssimazione, come “sfondamento”, abbattimento di confini, cancellazione delle antiche linee di demarcazione e di segmentazione che frammentavano, fino a ieri, lo spazio planetario in spazi territoriali: «La globalizzazione – osserva opportunamente Carlo Galli – è essenzialmente sconfinamento, sfondamento di confini, deformazione di geografie politiche». Con essa – aggiunge – «si realizza per la prima volta nella storia dell’umanità l’unificazione del mondo. Di un mondo senza centro ma con molte periferie, unificato ma non unitario, tecnicizzato ed economicizzato ma non neutralizzato»[2].
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28 novembre 2010
Ernesto Balducci
XII. La fine della Storia
La possibilità di un’inversione di tendenza e di imboccare un’altra strada – che non faccia piazza pulita di tutto quello che abbiamo avuto finora, ma di parecchio sì – sarebbe molto favorita dal comprendere che Cernobyl è l’esempio più tipico di quell’insicurezza causata non dalla natura, ma dalla tecnologia, cioè dall’uomo.
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26 novembre 2010
X. La crisi della politica
Gustave Doré, La distruzione del Leviatano
Non è del resto l’attribuzione alla seconda guerra del Golfo di un qualche primato, di un punto di svolta, a modificare il corso delle cose e la sostanza del problema. Al di là della sua data di origine, il fenomeno resta. Ma è tale da giustificare l’affermazione che «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più»? È tale da mettere «sotto critica una politica (sia pure la politica dell’unica superpotenza mondiale)», come suggerisce poco oltre Revelli e, di più, da colpire al cuore «l’idea stessa di politica così come la conosciamo oggi», destituendo «di senso il paradigma “securitario”»[1]?
La mia opinione, l’ho già sostenuto, è che il paradigma politico dei moderni non abbia mai funzionato. O meglio non abbia funzionato nel senso che proprio quel paradigma ci indicava. E che perciò sia un altro il paradigma politico dei moderni che ha funzionato: non quello pattizio, non quello securitario.
La mia opinione è che il Leviatano non cessi ora «di essere quel “dio mortale” che la teologia civile hobbesiana aveva inventato», e non solo ora torni «nella propria palude, mostro tra gli altri mostri»[2].
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24 novembre 2010
Primo Levi
VIII. Corsi e ricorsi
«Forse dovremmo aver più coraggio – scrive Revelli – nell’affermare, con maggior nettezza, che il “paradigma politico dei moderni” non funziona più»[1].
Ma forse non è un problema di coraggio, né questione di affermare con maggior nettezza. Semplicemente «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più». O meglio non ha mai funzionato. E questo al di là della buona fede e dell’acume di Hobbes.
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23 novembre 2010
Aristotele
VII. Fini e mezzi
Revelli sostiene che con Hobbes – con il suo riconoscimento che il male risiede negli istinti e nelle passioni dell’uomo fino a spingerlo ad essere «homini lupus» e soldato nel «bellum omnium contra omnes»; con il riconoscimento che l’uomo è di natura negativo, distruttivo e autodistruttivo; con il riconoscimento dell’artificiosità e dell’innaturalezza del “pactum” preservativo e salvifico – si consuma la rottura «con l’intera tradizione del pensiero politico classico, da Aristotele a san Tommaso (lasciamo per ora da parte Agostino) per cui l’uomo era invece l’animal politicum et sociale per definizione: l’essere per sua natura portato alla convivenza e all’armonia con i propri simili perché più di ogni altro bisognoso e dipendente dagli altri»[1].
Si è già avuto modo di contestare quest’affermazione, dal momento che la negatività dell’uomo e addirittura la sua tendenza autodistruttiva non escludono la propensione alla socialità, all’armonia e, cosa qui dimenticata, alla creatività.
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21 novembre 2010
v. I cani e i lupi
Abbiamo già notato che non è data politica, se non è dato male, in quanto quest’ultimo è «condizione prima ed essenziale del “politico”; [...] suo presupposto costitutivo. [...] tratto specifico della condizione naturale dell’uomo»[1].
Niccolò Machiavelli
Il paradigma politico della modernità prende le mosse da lì, dal male. Anzi, sarebbe più esatto dire che qualsiasi paradigma politico – antico, moderno, attuale o futuro – non può che prendere le mosse dal male. Se, infatti, non ci fosse qualcosa che non va, qualcosa di male, o almeno qualcosa che potrebbe andare meglio, che ragione ci sarebbe di darsi da fare, di occuparsi delle cose?[2]
Ma questo dovrebbe ricondurci a considerare la politica come lo strumento che gli uomini hanno per tentare di occuparsi del bene e provvedere ad esso. O, se si preferisce, a considerare la politica come l’habitat nel quale essi possono operare e addirittura debbono operare, nel quale cioè sono costretti ad operare, per procurarsi il massimo di bene e il minimo di male.
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19 novembre 2010
Hans Jonas
III. L’ingombrante presenza di Dio
Un’altra critica di fondo da fare al libro di Revelli è che in esso vi è un eccesso, se così lo si può chiamare, di attenzione al ruolo del religioso, malgrado proprio questa sia la forza del libro, soprattutto nella parte storica, ma anche nell’osservazione degli accadimenti più vicini ai giorni nostri.
Revelli giustamente ci dice che il Libro di Giobbe è il «trattato originario sulla questione del male», il promemoria individuale e storico del dolore e della sofferenza dell’innocente, il libro della prova dell’uomo e dell’assenza di Dio[1].
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17 novembre 2010
Marco Revelli
i. Ripensare la politica
In sole 137 pagine, Marco Revelli fa uno sforzo veramente notevole: quello di ricostruire i punti cardine del pensare e dell’agire politico nel corso della storia, da Platone ai giorni nostri, e di suggerirci, quindi, in questa epoca di grande sconcerto e desolazione, una via d’uscita per il futuro.
La politica perduta[1] non è un libro di storia delle dottrine politiche; né un pamphlet agitatorio per una nuova formazione politica alla ricerca di autorevoli referenze teoriche; né, infine, un saggio gelido e accademico per sfoggiare un po’ di erudizione. C’è qualcosa di tutto questo: lo sguardo d’insieme e la capacità sintetica; il pathos di chi si sente nella mischia e si rende conto che i tempi che corrono, quelli di breve e di lungo periodo, promettono poco di buono e urge fare qualcosa; una considerevole conoscenza delle idee a nostra disposizione e dell’evoluzione che esse hanno avuto, accompagnata dalla consapevolezza dei limiti di quei vecchi strumenti e degli argomenti a favore o contro di essi; le coordinate concettuali di riferimento, in particolare quelle figure mitiche che, espresse nel pensiero religioso, costituiscono i cardini o il substrato su cui si fondano le costruzioni politiche.
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20 marzo 2010
Nicolò Machiavelli
Sono in pochi a saperlo. Ho scritto un libro che si intitola La politica ritrovata. L’ho scritto fra il dicembre e il marzo del 2004, quando qualche brivido correva nelle vene di mia moglie e di me. Bandiere arcobaleno, lutti, angeli custodi, un po’ di jazz. Il sottotitolo del libro dice: «Proposte per evitare la sconfitta totale a partire da un libro di Marco Revelli».
Nella prefazione scrivevo: «Per quanto mi riguarda, la politica l’avevo smarrita con il crollo del muro di Berlino. Meglio, con il Pci che, dopo quell’evento, decide di cambiare nome. Più esattamente: con le aspre polemiche e le lacerazioni che hanno seguito quel battesimo ripetuto. E neanche questo è esattamente vero. Sia il prima che il dopo sono diversi. Disorientamento anche prima, convinzioni e convivenze anche dopo. Ma in quel frangente ho preso posizione. Sul “balconcino congressuale”, rubrica dedicata da Cuore, settimanale satirico de l’Unità, a entusiasti, esclusi, reclusi, schivi, smarriti, ho scritto il 5 febbraio 1990: “È mai possibile che ci si scaldi tanto per fare quello che da molti anni avremmo voluto ma non avevamo mai avuto il coraggio di fare? Il comunismo è una condizione dell’anima. Il resto ha un altro nome”. Da allora mi sono chiuso in un mutismo che neanche l’etichetta addosso di giornalista del quotidiano fondato da Antonio Gramsci ha potuto scalfire. Da quel silenzio sono uscito da non molto, ma è solo leggendo il libro di Marco Revelli che ho sentito di dover dire, di nuovo, la mia. La propongo a chi ne fosse interessato». (continua…)
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