Martin Heidegger
24 ottobre 2016
«Alea iacta est». Secondo Svetonio la frase l’avrebbe pronunciata, nella notte del 10 gennaio del 49 a.C. Giulio Cesare varcando il fiume Rubicone e prendendo quindi una decisione senza possibilità di appello.
Vien tradotta con «Il dado è tratto» e sta a significare che la decisione è stata presa e qualunque siano le conseguenze vanno messe nel conto e non si torna indietro.
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9 settembre 2016
Sigmund Freud
Se non ricordo male, Freud s’è occupato delle barzellette, dando loro dignità di forma espressiva degna d’essere presa in considerazione, non tanto però per il valore intrinseco che si può trovare in quelle storielle, prevalentemente trasmesse in forma orale e volte a scatenare una reazione di ilarità nell’ascoltatore; per lo più brevi, al limite della semplice battuta, che in questo caso mi par paragonabile a un aforisma e cioè ad una delle forme letterarie che io prediligo perché riesce a condensare in una sola frase o poco più quello che ad altri necessita un intero romanzo o un trattato di filosofia; non tanto dunque per la qualità della costruzione narrativa e per i messaggi con esse comunicati, quanto per il bisogno di un individuo di servirsene, per la possibilità che raccontandole ci si nasconda dietro qualcosa e dicendole s’intenda sotto sotto dir altro.
Non so se critici letterari, filosofi, linguisti, semiologi le abbiano approfonditamente studiate e noto la scarsità di informazioni enciclopediche che riguardo ad esse emerge digitando la parola su un motore di ricerca, il quale per lo più indirizza verso stupidari grossolani, giocosi o grevi, improvvisate antologie che mettono in fila tutto quanto è stato recentemente messo in circolazione per scatenare la risata o strappare un sorriso.
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27 agosto 2016
Enrico Zoi nella foto del suo profilo Facebook
Enrico Zoi dev’essere entrato al liceo Nicolò Machiavelli di Firenze, all’epoca ospitato dentro la medicea Fortezza da Basso dove ormai si fan solo più mostre di second’ordine o più blasonate sagre di paese, un paio d’anni prima che io, ripetente di un anno perso al ginnasio, me ne stavo per uscire e, se non ricordo male, partecipava a un po’ delle sterminate riunione che si organizzavano all’epoca nelle scuole o nelle case del popolo.
Ci siamo rivisti molti anni dopo tenendoci però, credo, reciprocamente sott’osservazione, perché, come un’altra mezza dozzina di compagni del liceo – mi vengono in mente ovviamente Mario Fortini, e poi Simone Fortuna, Paola Emilia Cicerone, Paolo Russo, per certi versi Francesco Maria Cataluccio, coautore con me di un resoconto sull’ultimo seminario di Cesare Luporini all’Università, e, ma andando ai tempi delle medie anziché delle superiori, Stefano Bucci, sperando non me ne voglia chi rimasto fuori dalla lista –, abbiamo poi intrapreso, con le opportunità che ciascuno ha avuto a disposizione, il medesimo mestiere, quello di dare informazioni, nobile variante di un’attività che c’è chi dice sia quella di far la spia.
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18 agosto 2016
Eugenio Garin
Appropriazione indebita
I. Ieri e oggi
1.1. Eugenio Garin: Il filosofo visto da tergo
Sono riusciti a convincerlo. Con qualche dubbio, ma l’ha fatto: poco più di trenta pagine per raccontare il suo itinerario filosofico, una sorta di autobiografia intellettuale che ha tutto il sapore di un rapido affresco sulla cultura del nostro secolo.
Sessant’anni dopo è il titolo del saggio di Eugenio Garin che la rivista «Iride», il semestrale della sezione di filosofia dell’Istituto Gramsci toscano, manda in libreria in questi giorni. «Iride» è una rivista atipica nel panorama delle pubblicazioni filosofiche italiane: raccoglie non solo generazioni diverse di studiosi, ma anche correnti di pensiero che, se è vero che hanno voglia di dialogare, è altrettanto vero che distano molto l’una dall’altra.
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10 giugno 2011
Ci rammentava Heidegger quanto si sia – e ci si sia – arrischiati su questa terra e quanto si debba esserci, in attesa del tramonto. Perciò, essendoci e ancora arrischiandoci, vediamo cosa c’è e mettiamo in gioco.
Martin Heidegger
Rispondendo no ai due referendum sull’acqua di domenica si rischia che un giorno qualcuno dica “l’acqua è mia poiché te la distribuisco” e a nulla valga il postulato che invece è di tutti perché senza di essa inevitabilmente si muore e nel giro di poco tempo. Del resto, parimenti abbiamo bisogno di pane e di rose per poter campare, ma lentamente lentamente ci hanno spiegato che quelli invece sono proprietà privata e il bisogno può andare a farsi fottere; e così, un giorno si potrà dire dell’aria che ci è ancor più immediatamente essenziale. Si rischia, insomma, di avventurarsi nel deserto senza borraccia e questo è assai sconsigliato. Ma rispondendo sì si rischia che nessuno provveda a farla arrivare, e pulita, al rubinetto di casa, ammesso la si abbia, perché anche questa è poi diventata una cosa da acquistare.
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16 luglio 2010
Yin e Yang
Non ho avuto tempo, negli ultimi due giorni, di dar conto delle presentazioni del libro che ho fatto ad Arezzo e a Montale. Ero impegnato, oltre che in altre cose, nelle presentazioni. Fa caldo, le città si svuotano e qualche sedia rimane vuota, ma su quelle occupate vedo occhi che interrogano, attenti alle parole che hanno detto Tito Barbini ad Arezzo e Alessandra Pastore a Montale, alle domande che mi hanno fatto e alle risposte ricevute.
È inevitabile. Parlando del mio libro spesso si va a finire sulla coppia “ottimismo/pessimismo”. Il mal voluto non è mai troppo. Ma per me è un bene. Se no avrei scritto altro. E la domanda, ridotta all’osso, è se c’è speranza, se c’è una via di uscita. Qualcuno lo chiede, a meno mi è parso, non soltanto per sapere nel libro dove si va a parare, ammesso che nel libro si vada da qualche parte se non sempre più verso Occidente; ma se per me, in maniera convincente, trasferibile all’interlocutore, contaminante, esiste lo scoglio a cui aggrapparsi.
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11 luglio 2010
vdr5 di Maurizio Marinelli
Ci sono amici con cui si può stare ore a parlare. Anzi: ad ascoltarli. E, anche se in alcuni momenti il loro bisogno di parlare risulta leggermente patologico, davvero rispondente al solo loro bisogno di parlare, di avere un pubblico dinanzi ed orecchie senzienti, ciò che si apprende, ciò che giunge, ciò che si incamera, ciò che si sente, è nutrimento, salute, ricchezza. Questo avviene in particolare con le persone che hanno molto vissuto o molto pensato.
Sono due doti indispensabili a scrivere un libro: bisogna aver di che scrivere, non solo saperlo fare, e il più delle volte ciò deriva principalmente dall’aver vissuto o pensato. Orbene, vi son persone che anziché trasferire quel vissuto e quel pensiero sul foglio di carta, lo consegnano alla parola, al dialogo, alla conversazione e possono andare avanti per ore, giustappunto tenendo desta l’attenzione e l’udito di chi hanno di fronte.
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12 maggio 2010
Alla redazione di via Barberia
Pietro Spataro, a cui Concita De Gregorio ha affidato il coordinamento delle iniziative speciali de l’Unità – in genere un ruolo per togliersi di torno qualcuno, ci son passato anch’io e conosco qualche altro collega in analoga posizione –, dovrebbe essere stato l’ideatore dei nuovi dorsi regionali del giornale fondato da Gramsci nel 1924, un tempo organo del Partito comunista italiano fin che questi non defunse. Sono dei tuorli che stanno nell’albume del giornale nazionale a cui fa da guscio la prima pagina, con gli strilli, i richiami e l’apertura, quasi sempre un’immagine e un titolo più che un testo – ah immagine, immagine!
Pietro Spataro è anche il nocciolo di un frutto che dentro quel giornale sta cercando, mi sa un po’ a fatica, di dar un po’ di spazio alla memoria, al ricordo, alla riconoscenza, alle cose come stanno non sempre e solo come uno vorrebbe che stessero o siano state. Intendo dire che Pietro è quello che dentro al giornale – non fuori come noi –, presumo per un debito di riconoscenza e senso di restituzione, sta cercando di dar fiato a una testimonianza dinanzi a un uomo che ci ha insegnato molto, che lo si abbia conosciuto personalmente o solo letto come me: Bruno Schacherl.
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16 marzo 2010
Lettera anonima
Fra i racconti di Sempre più verso Occidente ce n’è uno che si intitola Amore in buca. Narra un delirio sentimentale, un intreccio di emozioni contraddittorie, laceranti. Riferisce di un tradimento, forse più d’uno. C’è un protagonista principale, un uomo che spedisce lettere, una al giorno. E dei protagonisti secondari non meno importanti di lui: la voce narrante, che è poi un amico; Ludmilla, che è l’amata; e il libraio, il più savio di tutti. Ho scritto quel racconto ninnando una bambina ferita inesorabilmente dalla natura, costringendomi a stare desto per vegliare su di lei. Ce l’ho fatta. Lei solo in parte. Ritengo che il protagonista di quel racconto abbia del coraggio. Si fa da parte e tuttavia resta presente. C’è. Heidegger avrebbe detto che partecipa del Dasein.
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