Dalla parte dei lettori
16 novembre 2012Una delle lezioni che credo di aver imparato nei tanti anni in cui ho fatto il mio mestiere, quello del giornalista, è di domandarsi, prima di mettersi a scrivere, per chi lo si sta facendo. In altre parole di chi è composto il pubblico al quale ci si rivolge e, quindi, quale tipo di linguaggio va adottato, quali sensibilità vanno condivise, su quali elementi si deve far perno perché il messaggio giunga a destinazione. Se si sta lavorando per Topolino piuttosto che per Playboy, per il Corriere della Sera piuttosto che per il Manifesto, per la collana Harmony piuttosto che per i Coralli, cambia il registro.
Dubito di essermi fatto consapevolmente quella domanda ogni volta che mi sono accinto a scrivere nel silenzio e nella solitudine della mia stanza per il piacere o per il bisogno di scrivere, perché un’idea, una storia, un grumo di considerazioni e sentimenti stavano prendendo la forma di parole messe in fila, una dietro l’altra, e poi frasi, capoversi, capitoli. Forse quella domanda e una qualche relativa risposta restavano vivide e presenti ma in sottofondo, come un retrogusto provato sorseggiando un vino che non sia solo gradazione alcolica.