Paul Lafargue
Qualche anno fa ho letto, un po’ in tralice, un libro di cui non ricordo più titolo e autore, nel quale si sosteneva che la sinistra era geneticamente condannata a perdere e restare minoritaria, perché il suo lamentarsi, il suo accusare, la sua critica allo «stato presente di cose» ne rivelavano il volto triste, amareggiato, infelice. E come fa uno a volere dolore e sconforto? Perché si dovrebbe scegliere un tal autoflagello?
C’è del vero in quell’analisi, benché i pochi tentativi che io conosco di mettere a punto una eudaimonia, vale a dire una dottrina morale che identifichi il bene con la felicità – e, aggiungerei io per essere maggiormente preciso, più che con la felicità con uno stato di benessere, di serenità, di pienezza e anche capacità di sorridere e godere – siano stati operati proprio nell’ambito del pensiero diciamo così, genericamente, di sinistra, ammesso quest’ultima parola abbia ancora un qualche senso.
C’è una tendenza insita nelle tradizioni del pensiero di sinistra alla commiserazione, al pianto, al funereo, allo sconsolato, al catastrofico e all’apocalittico: lo spostamento della «abolizione dello stato presente di cose», per usare la più compiuta definizione messa a punto da Karl Marx dell’obiettivo da raggiungere, vale a dire della creazione di uno «stato futuro di cose», quasi automaticamente comporta un soddisfacimento non qui e ora ma là e poi, lasciando all’hic et nunc il fastidio, la scontentezza, il disagio.
(continua…)