In un sensato saggio pubblicato nel 1971 nella raccolta Verso un’ecologia della mente, l’impareggiabile antropologo e linguista Gregory Bateson – artefice della teoria del “doppio legame” – sostiene che da sobrio l’alcolizzato è «più sensato delle persone che lo circondano». Scavando tra le pagine di scrittori e filosofi – da Socrate a Leopardi, da Tolstòj a Montaigne – un alcolista sobrio va alla caccia di senso e logica, ricordandosi delle proprie compulsive passioni e delle emozioni che accomunano i seguaci di John Barlecorn e quanti riescono, invece, a non alzare il gomito. Se il primo passo è aver consapevolezza di quanto si sta bevendo, in queste pagine si incontra il cammino di chi beve e di quanti lo circondano. LEGGI DI PIÙ
La biografia di Primo Levi scritta da una persona che ha amato lo scrittore amando chi l’ha amato e gliel’ha fatto amare: perciò è «appassionata». In dodici condensati capitoli Questo è un uomo testimonia il valore del pensiero e della narrativa del prigioniero 174517 nel Lager di Auschwitz, insieme al debito personale dell’autore nei confronti di un maestro. LEGGI DI PIÙ
Il primo libro pubblicato dalla casa editrice TESSERE è Appropriazione indebita, una raccolta di trenta interviste realizzate per l’Unità da Daniele Pugliese fra il 1982 e il 1992 a filosofi, scienziati, intellettuali che hanno lasciato un grande contributo alla cultura e dalle cui parole ancor oggi è possibile trarre importanti suggerimenti per aprire i propri orizzonti e spalancare la propria mente. LEGGI DI PIÙ
Apocalisse,
il giorno dopo.
La fine del mondo fra deliri e lucidità
Pubblicato nella «collana coordinate» della casa editrice Baskerville di Bologna. Il libro, dalle ore 24 del 21.12.2012 e fino all’uscita del volume di carta è disponibile e scaricabile gratuitamente in formato ebook dal sito della casa editrice.LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana I venticinque» della casa editrice italo-francese Portaparole di Roma ed è acquistabile in libreria oppure online. LEGGI DI PIÙ
Pubblicato nella «collana blu» della casa editrice Baskerville di Bologna, che annovera in catalogo autori quali Pier Vittorio Tondelli, Fernando Pessoa, Georges Perec ed è acquistabile in libreria oppure online.LEGGI DI PIÙ
Il racconto Sempre più verso Occidente– che dà il titolo al mio primo lavoro di scrittura “in proprio” e non “per conto terzi”, una raccolta di racconti – è preceduto da una breve introduzione in cui si riferisce della breve corrispondenza intercorsa tra me e Primo Levi quando il 21 marzo del 1986 mi decisi a spedirgli appunto quel testo in cui prospettavo un andamento diverso nell’inquietante storia da lui narrata in Vizio di forma, il secondo volume “non-memorialistico” e apparentemente fantascientifico, uscito da Einaudi nel 1971.
L’argomento centrale di Verso occidente, e quindi anche della mia successiva incursione in quella trama, è – per essere molto sintetici, essendoci molto altro in quelle pagine – il suicidio, il diritto umano più smaccatamente non ancora riconosciuto dalle Carte che regolano la convivenza degli individui sul pianeta da essi immeritatamente avuto in eredità.
Nell’appassionata biografia di Primo Levi che TESSERE ha pubblicato nel 2017 – trentennale della morte dello scrittore torinese, mentre quest’anno si ricordano i cent’anni dalla sua nascita – notavo che, malgrado i «quasi 300 articoli pubblicati su una miriade di testate – fra le quali spicca la piemontesissima, anzi torinesissima “La Stampa” –», a lui non era venuto in mente di chiedere l’iscrizione all’Albo dei pubblicisti e nessuno evidentemente gliel’aveva proposto.
All’epoca era rimasta nella mia penna la richiesta che quella onorificenza – l’iscrizione d’ufficio all’Ordine dei giornalisti – gli venisse conferita in memoria, postuma e honoris causa.
Ora che metto a fuoco l’obiettivo e se ne presenta l’occasione, avanzo la proposta, me ne faccio promotore, invito chi di dovere a compiere i propri passi e a far quanto gli compete.
In tedesco Doppelgänger significa sosia, e un sosia – com’era il servo di Anfitrione di cui Mercurio, generando equivoci e scene comiche, prende le sembianze nella commedia di Plauto Amphitruo (e poi in quella di Molière Amphitryon) – è una persona talmente somigliante a un’altra da poter essere scambiata per essa. Un “doppio”, insomma, un gemello, qualcuno che può prendere il proprio posto e fingersi noi stessi.
Ne L’altrui mestiere, in un brano intitolato Dello scrivere oscuro, Primo Levi afferma: «Siamo fatti di Es e di carne, ed inoltre di acidi nucleici, di tradizioni, di ormoni, di esperienze e traumi remoti e prossimi; perciò siamo condannati a trascinarci dietro, dalla culla alla tomba, un Doppelgänger, un fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni, quindi anche delle nostre pagine».
Devo delle scuse a quanti hanno partecipato alla presentazione della mia appassionata biografia di Primo Levi Questo è un uomo, che, per interessamento del mio insostituibile amico Gian Luca Corradi e di Silvia Alessandri, vicedirettrice della Biblioteca Nazionale di Firenze e convinta socia di TESSERE, si è tenuta martedì 30 gennaio alla Biblioteca Nazionale con la partecipazione appunto del suo direttore, Luca Bellingeri, di Renzo Bandinelli, chimico e rappresentante della Comunità ebraica di Firenze, di Maria Cristina Carratù, giornalista di “Repubblica” con cui ho condiviso molti anni fa un bel pezzo della mia carriera professionale quando entrambi seguivamo la politica al Comune di Firenze, ed al professor Massimo Bucciantini, docente all’Università di Siena ed autore di vari bei libri tra cui Esperimento Auschwitz dedicato all’approccio scientifico impiegato da Primo Levi nella sua narrativa e al rapporto fra lo scrittore torinese e Franco Basaglia, l’uomo che vivaddio ha sradicato l’esistenza dei manicomi.
Marco Belpoliti e Anna Benedetti alla presentazione di "Primo Levi di fronte e di profilo". Foto di Andrea Ruggeri (andrea@nonamephoto.it)
Non mi era mai capitato – eppure non è attività che non abbia praticato nella mia ormai lunga vita – di vedere, alla presentazione di un libro, l’autore “commuoversi” per il contenuto di quanto ha scritto, diciamo così “per l’oggetto” della sua narrazione.
Ma c’è sempre una prima volta. A Marco Belpoliti – tenace curatore delle Opere di Primo Levi e adesso autore di 736 magiche, intriganti e preziose pagine intitolate Primo Levi di fronte e di profilo che Guanda ha mandato in libreria un anno e mezzo fa, ospite ieri con Giovanni Falaschi della rassegna “Leggere per non dimenticare”, da molti anni prestigiosa vetrina della migliore editoria messa in piedi da Anna Benedetti – si è spezzata la voce facendo un inciso sulla poco esplorata attività poetica di Primo Levi, quei 45 componimenti in versi contenuti in Ad ora incerta, edizione Garzanti perché Einaudi li snobbò, più gli 11 ripescati proprio da Belpoliti nelle Opere del 1988. «Le poesie sono il grido di dolore di Primo Levi», ha detto quasi facendo fatica a pronunciare quelle parole.
Quando ho conosciuto Antonella non sapevo fosse stata la passeggera n. 10832513. Questo il numero di prenotazione che le era stato assegnato per prendere posto nella cabina 9278 della Costa Concordia, la nave che alle 21 e 45 del 13 gennaio 2012 finì contro gli scogli dell’isola dove ho trascorso molte vacanze della mia infanzia e poi della mia giovinezza, piene di ricordi belli e brutti: l’isola del Giglio, 27 chilometri di costa a credo circa 10 miglia marine dal Monte Argentario, una vera e propria rarità geografica di cui la Toscana detiene il primato.
Questo il testo della relazione Attualità dell’idea di Apocalisse che ho presentato ieri all’incontro su “Apocalissi ieri e oggi” nell’ambito del ciclo Incontri alla fine del mondo organizzato dal Museo Pecci di Prato ed al quale hanno partecipato il professor Marco Ciardi dell’Università di Bologna, che ha parlato di Apocalissi e ricerche d’altri mondi. Atlantide e non solo, e il professor Andrea Mecacci, dell’Università di Bologna, con un intervento su Estetiche dell’apocalisse:
«Alea iacta est». Secondo Svetonio la frase l’avrebbe pronunciata, nella notte del 10 gennaio del 49 a.C. Giulio Cesare varcando il fiume Rubicone e prendendo quindi una decisione senza possibilità di appello.
Vien tradotta con «Il dado è tratto» e sta a significare che la decisione è stata presa e qualunque siano le conseguenze vanno messe nel conto e non si torna indietro.
Questo il mio articolo pubblicato nel bel sito www.doppiozero.com sulla mostra che inaugura la riapertura del Museo Pecci a Prato dedicata alla fine del mondo:
Prima della fine del mondo ci saranno ovviamente “Gli ultimi giorni dell’umanità”. È questo il titolo del dissacrante dramma – 779 pagine nell’edizione Adelphi in 2 volumi – che Karl Kraus scrisse fra il 1915 e il 1922, avvertendo nella premessa il lettore che la sua messa in scena «è concepita per un teatro di Marte», richiedendo «secondo misure terrestri, circa dieci serate».
Con Antonella Blanco, Rita Martinelli, Luigi Chicca e Massimo Bellomo abbiamo raccolto poco meno di un centinaio di euro con i quali acquistare una copia dei 5 volumi di Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, pubblicato nel 1985 dalle Edizioni del Calendario insieme alla Marsilio, curato da mio padre, Orazio Pugliese, con una introduzione di Renato Zangheri ed il contributo di Renzo Pecchioli (vol. I – 1921 – 1943), Sergio Bertolissi e Lapo Sestan (vol. II° – 1944 – 1955), Francesco Benvenuti (vol. III° – 1956 – 1964) e mio insieme a mio padre (vol. IV° – 1964 – 1975 e vol. V° – 1976 – 1984, per i quali sono stati preziosi i contributi di Eva Pollini e Gian Luca Corradi).
Era la notte fra il 23 e il 24 febbraio. Esattamente 170 mila anni fa. Le tenebre dell’universo s’illuminarono d’un tratto. Il segnale arrivò anche qui sulla Terra, ma solo l’anno scorso. Gli astronomi che lavorano nell’emisfero sud riuscirono ad osservarlo, per la prima volta così vicino. Era esplosa una «Supernova» nella nube di Magellano, a 170 mila anni luce dalla terra.
Che cos’è successo quel giorno? Lo abbiamo chiesto al professor Franco Pacini, direttore dell’osservatorio astrofisico di Arcetri.
Terminata la parte seria della lezione ai ragazzi della scuola media di Inveruno, ho potuto introdurre l’illustrazione di un particolare tipo di intervista che, se fatta con preparazione e voglia di informare, non è affatto poco seria: l’intervista impossibile.
A questo genere giornalistico letterario – Primo Levi ne ha fatte di splendide: mi viene in mente Il gabbiano di Chivasso, In diretta dal nostro intestino:l’Escherichia coli, oltre al racconto che s’intitola proprio L’intervista, comparsi nel postumo L’ultimo Natale di guerra – mi ci sono avvicinato molto giovane leggendone una fatta da Edoardo Sanguineti, al quale poi, grazie alla comune amicizia con Aristo Ciruzzi, andando a trovarlo a Genova, tentai di chiederne una per il periodico universitario che dirigevo, Concentramentorenove, ricevendo ahimè un rifiuto motivato da ragioni di impegni già presi, ma la promessa che la mia successiva richiesta sarebbe stata comunque esaudita, una sorta di cambiale in bianco che non esitai a riscuotere, ottenendo un suo pezzo per l’Unità il cui dattiloscritto credo di conservare ancora e che un giorno forse dovrò tirare fuori dal cassetto.
Agìto da qualcosa di analogo a quanto suppongo spinga lo scienziato a chiedersi il perché delle cose più impensate, a sfrucugliare nei recessi più oscuri ed inesplorati dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, compresi quelli scomodi, sconvenienti e capaci di sconcertare lo stesso ricercatore, talvolta mi servo del più diffuso dei social network, Facebook, direi quasi come un antropologo osserva una popolazione che gli è pressoché sconosciuta, di cui ignora usanze e costumi, o più precisamente in maniera provocatoria, lanciando un sasso che presumibilmente smuoverà le acque.
Nel ringraziare Enrico Zoi per l’intervista che mi ha fatto su “esserciweb” prendendo spunto dalla pubblicazione ora nel blog e poi in un e-book delle mie interviste raccolte in Appropriazione indebita, ho menzionato un certo numero di ex studenti del liceo classico Niccolò Machiavelli di Firenze che hanno poi intrapreso come me la strada del giornalismo, e nel ripescare i loro nomi nella memoria – in qualche maniera ripercorrendo i corridoi ed entrando nelle classi di quell’ex edificio militare, direi proprio una caserma con le sue camerate, nel quale ci si imbatte una volta varcato il grande portone di legno che su viale Filippo Strozzi, di fronte al Palazzo dei congressi, consente di accedere alla Fortezza da basso progettata da un pool di architetti al servizio dei Medici, tra i quali spicca Antonio da Sangallo il Giovane – ho visto decine e decine di volti proprio come in una sorta di Facebook privato, a molti dei quali associo un nome e un cognome, qualcuno di una persona a cui sono molto legato, a partire dalla mia ex moglie, ma anche altri amici ed amiche che vedo più o meno frequentemente ma sempre con il medesimo entusiasmo e sentimenti mutati sì ma non ininfluenti, e tanti altri compagni di scuola che invece restano anonimi o rarefatti o come sbiaditi, qualcuno anche svanito.
Il 25 gennaio di quest’anno ho tenuto, come danno conto il video su YouTube che si può vedere qui sopra e il post I reporter di Inveruno, una lezione ai ragazzi di terza media della Scuola Alessandro Volta del piccolo comune lombardo, i quali hanno seguito il corso organizzato da Liana Zorzi intitolato “Giovani Reporter”.
Ho tralasciato di scrivere molte cose nei mesi scorsi. Sembrava quasi avessi interrotto il dialogo con i miei lettori, privandoli della possibilità di leggere qualcosa che poteva risultar loro interessante, quanto meno di essere scorso. Me ne scuso, ma sono state ragioni di forza maggiore che non sono affatto scomparse, solo finalmente riesco a tenerle a freno. Provo in qualche caso a rimediare, affidandomi per lo più alla memoria.
Mi hanno scritto dei miei racconti Sempre più verso Occidente:
«Ho letto i suoi racconti (…)
sono rimasto sorpreso dall’argomento e dal tono (…)
sono molto leviani e al tempo stesso non lo sono
mi hanno aiutato a capire quanto dolore ci fosse in quei racconti dello scrittore torinese
ho ritrovato la stessa cosa in lei, ma con minore lievità e con minore speranza
in fondo Levi pensava il mondo riformabile
in lei c’è una delusione più profonda e una amarezza simile ma diversa, non so dire quanto e come diversa
ma la sento
sono una bellissima prova letteraria anche se si sente il debito con l’ispiratore e la devozione al modello».
Per correttezza, non avendo avuto alcuna autorizzazione a diffondere un testo privato, non dico chi ha scritto queste parole. Al quale va la mia gratitudine.
Sono un privilegiato, perché il pur rapido giro che mercoledì scorso ho fatto alla Fondazione MAST di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) – significativamente ospitata in via Speranza –, visitando la mostra dedicata al fotografo svizzero Jakob Tuggener (1904-1988), ho potuto compierlo avendo per Virgilio – benché questo, in realtà, sia il mio terzo nome di battesimo – il mio amico, editore, compagno di ferrate, slittini, cocktail Martini, conversazioni sterminate e senza paletti, Maurizio Marinelli, allievo di Umberto Eco, “artista visto da tergo” e tanto altro ancora, che da moltissimi anni ha messo a disposizione di una delle più importanti imprese bolognesi, specializzata credo nei macchinari per il packaging e, per quella via, nel vasto universo dell’automazione, le sue poliedriche, avveniristiche, scoppiettanti, solide competenze nel campo della comunicazione, della tecnologia, della grafica e di tutto quello che dovrei aggiungere se non rendessi troppo lungo e perciò illeggibile questo periodo giunto ormai alla tredicesima riga di una cartella scritta in Word.
Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti sono gli artefici dell’associazione culturale bolognese impegnata nella produzione di cinema e teatro Archiviozeta che ha avuto il coraggio di mettere in scena quel capolavoro «concepito per un teatro di Marte», un «dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate», ovvero sia Die letzen Tage der Menschheit, in italiano Gli ultimi giorni dell’umanità, del mio amatissimo Karl Kraus, spettacolo che spero un giorno di poter vedere su un palcoscenico.
Con Elena Monicelli della scuola di pace di Monte Sole – dove, come molti sanno, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, forze armate tedesche e fascisti italiani eseguirono numerosi eccidi, noti come strage di Marzabotto, nei comuni di Grizzana Morandi, Monzuno e appunto Marzabotto in provincia di Bologna, uccidendo 955 persone che lievitano a 1.676 se si aggiungono i morti per cause varie di guerra – e con la collaborazione dell’associazione “Navile insieme”, al centro sociale Montanari di Bologna nell’ex sede della società che gestiva la tramvia, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti hanno allestito sabato 13 febbraio lo spettacolo/laboratorio definito “un esperimento di memoria attiva” intitolato La zona grigia perché si rifà al secondo capitolo del libro di Primo Levi I sommersi e i salvati.
Chiesi molti anni fa – nel 1998 – a Marco Belpoliti, prezioso curatore delle opere di Primo Levi, di dare un’occhiata ai miei racconti – ora pubblicati dalla Baskerville di Bologna, e intrisi di suggestioni dovute all’autore del Sistema periodico e di Se non ora, quando? – e lui garbatamente mi chiese di pazientare un paio di mesi essendo “sommerso di lavoro” e con “problemi familiari”.
Il grande timore di Primo Levi – che talvolta prendeva la forma di un incubo, ed a cui lui attribuiva, vero o falso che fosse, lo stimolo iniziale a scrivere o, come egli preferiva, a dar testimonianza – era quello di non essere creduto, di risvegliarsi in mezzo ai propri cari guardato come si guarda un povero di mente, uno a cui non si da credito ritenendolo un contastorie, un parolaio dispensatore di frottole.
Linkiesta.it è un giornale digitale che – si legge nella presentazione del sito – «intende dare spazio nella produzione editoriale ad una nuova generazione di commentatori, provenienti dalle associazioni, dall’università, dalla scuola e dalle professioni, che oggi, purtroppo, non hanno spazio sulla stampa tradizionale».
Dici nazismo e la condanna dei tedeschi è immediata. La condanna del loro Dna, quasi più che della generazione responsabile di quell’atrocità per la quale si macchiò orrendamente.
È successo, può succedere ancora, ammoniva Primo Levi invitandoci a non dimenticare, ed è doveroso ascoltare quel monito oltre che proficuo, perché quel che succede oggi a uno, domani può succedere a un altro, e se non son io per me chi sarà per me, e se non così come, e se non ora quando?
Ma spostare il pregiudizio – das Vorurteil, in tedesco – razziale da chi fu vittima di quegli scempi a chi li commise merita un non minore monito e, soprattutto, la capacità di tener alta la guardia, di non smettere mai di osservare e farsi domande.
Avrei voluto onorare il 25 aprile – festa della Liberazione e quindi della lotta partigiana, giorno in cui da qualche anno rinnovo la tessera dell’Anpi in segno di gratitudine a chi ci sottrasse alla schiavitù degli invasori e della dittatura – scrivendo questo testo che solo ora è pronto, avendo comprato solo pochi giorni prima di quella data il libro a partire dal quale scaturiscono queste mie riflessioni.
Il libro si intitola La felicità dei partigiani e la nostra. Organizzarsi in bande, lo ha scritto Valerio Romitelli che lo ha presentato insieme all’ex segretario regionale del Pci toscano Guido Sacconi, il 22 aprile scorso alla Libreria dei lettori di via della Pergola a Firenze, dove sono stato invitato dall’amica Linda Coppitz.
Trovo affascinante l’idea che dietro una assoluta futilità, qual è un profumo maschile – prodotto di cui credo non aver mai fatto uso, fatto salvo il dopobarba all’epoca in cui, molti anni orsono, mi radevo –, possa nascondersi l’intera trama di un romanzo.
Questa è l’impressione che ho avuto oggi quando il mio sguardo è caduto sull’hedione al quale le frivole pagine del sabato di Repubblica dedicano un intero articolo che ingombra ben due pagine del quotidiano.
L’hedione è un aldeide di sintesi e un aldeide, stando a quanto riferisce Wikipedia, sarebbe un composto organico di formula bruta che reca nella propria struttura il gruppo funzionale formile, indicato con –CHO».
Ne I sommersi e i salvati (p. 1066 del volume 2 delle Opere edite da Einaudi), Primo Levi nota che «là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». Le due cose vanno di pari passo ed è assai difficile dire quale venga prima, se si storpino innanzi le parole o le si maltrattino dopo aver torturato ed infierito sui corpi, o minato solidità ed equilibrio mentale dell’individuo.
Ho letto vari articoli nei giorni scorsi circa la morte di Michele Ferrero, non perché io sia mai stato, a differenza di Nanni Moretti e Walter Veltroni un fanatico della Nutella – e nemmeno del Rocher, benché non lo disdegni affatto – ma perché proprio recentemente mi era capitato di leggere, se non vado errato su Sette del Corriere, un ritratto di quest’imprenditore considerato oltre che l’uomo più ricco d’Italia e uno dei migliori testimoni del Made in Italy, anche uno come non ne fanno più da un pezzo, o, per dirla in altro modo, l’incarnazione di come eravamo e mai più potremo essere.
Il carro merci esposto in piazza San Carlo a Torino in occasione della mostra su Primo Levi
Sono pericolose le deroghe perché quando eccezionalmente se ne ammette una, si ha l’alibi e la giustificazione per consentire anche la seconda, poi la terza e così via, e insomma per passare appunto dall’eccezionalità alla norma, all’ordinario, al consueto e considerare questi come banali, in definitiva poco gravi, veniali anziché capitali qualora siano peccati, cioè peccatucci tutt’al più.
Tant’è che lo “strappo” autoconcessomi nel post precedente, Pubblicità acclarata, quello di consentirmi la pubblicità di due libri senza averli letti, ma per il solo fatto di essere in libreria e di trattare un argomento che mi pare possa essere interessante, sta inesorabilmente spingendomi ad una coazione, in psichiatria, secondo il dizionario Treccani quel «fenomeno morboso caratterizzato dall’insorgenza di un pensiero o di un impulso ad agire, da cui il soggetto non riesce o fatica a liberarsi, pur giudicandoli futili o inconsistenti», disturbo precisato dalla psicanalisi aggiungendovi la specificazione «a ripetere», ovvero sia la «tendenza a ripristinare esperienze passate vissute dall’individuo come particolarmente gratificanti».
Ci sono cose in un silenzio – cantava Mina – che non aspettavo mai. Fu la prima canzone che Paolo Limiti scrisse per lei e si chiamava La voce del silenzio. Già, la voce del silenzio, come se questo, il silenzio, possa dire, il suo nulla esprima, il niente racchiuso in esso divenga qualcosa ed aspiri al tutto.
La canzone m’è venuta in mente leggendo questa mattina su Repubblica l’articolo di Francesco Erbani che recensisce e dà notizia della pubblicazione del volume di Bice Mortara GaravelliSilenzi d’autore, edito da Laterza, una “collezione privata” di autori che con l’assenza di suoni, con la mancanza di parole, con la voce strozzata in gola si sono cimentati; un’antologia, suppongo, inevitabilmente monca e parziale, incompleta, nella quale sono assenti gli assenti, e certi silenzi tacciono.
Luca Signorelli, cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto.
So bene che nemmen si può tentare un collegamento, figuriamoci un paragone, e il solo tentativo di mettere su una stessa bilancia due pesi talmente diversi – su un piatto una scatoletta di tonno e sull’altro l’equivalente di un pianeta, anzi, che dico!, di tutti i pianeti e le stelle e i satelliti di un intero universo –, quel solo tentativo, oltre a suonar come una bestemmia, finirebbe per impoverire la dignitosa e sensata entità di entrambi gli argomenti, nonché autorizzerebbe uno scrupoloso ufficiale sanitario a prescrivere un trattamento sanitario obbligatorio per l’estensore di queste note, vale a dire per me che le sto scrivendo.
La rubrica delle lettere nei giornali – benché per esperienza diretta sappia quanto possa essere se non proprio manipolata almeno diretta – è comunque una discreta finestra sul cortile, dalla quale si può soddisfare più che la pettegola curiosità d’una comare, quella vivida dell’attento e scrupoloso, mosso dal desiderio di conoscere come vadano le cose nella realtà, più volentieri qua in basso che non lassù nell’empireo.
E allora ecco che oggi, intorno alla saggia Amaca di Michele Serra tesa a dissuadere “i giovani leoni del Pd” dalle tentazioni censoree e repressive nei confronti delle “corbellerie” d’un rockettaro indispettito, su Repubblica c’è una e-mail che giunge da un indirizzo con chiocciola @, ed una missiva partita invece da Pinerolo là dalle mie parti in Piemonte, digitale la prima, cartacea vien da pensare la seconda, delle quali mi vien voglia di dar conto.
Recentemente la Corte di Cassazione – come si può leggere in questo articolo di Redattore sociale da cui ho tratto le informazioni – ha annullato un’ordinanza di un giudice di sorveglianza il quale aveva accolto il reclamo di due detenuti in regime di 41bis concedendo loro di vestirsi con abiti griffati e alla moda.
Lo scorso anno – come ho avuto occasione di spiegare qui – non mi sono potuto permettere di iscrivermi all’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia, alla quale aderisco – lo si può evincere da qui – come “antifascista” perché le alternative sono “partigiano” – e questo anagraficamente è impossibile oltre che verificabile solo dopo un’inconfutabile prova – o “patriota”, la qual qualifica, soprattutto dopo l’avvio dell’Unione europea, mi è oscura. Non avevo i soldi per farlo essendo agli sgoccioli anche dell’assegno di disoccupazione che per due anni mi ha tenuto in vita.
Aver ritrovato un lavoro mi dà anche questa possibilità. Da cui se ne dovrebbe dedurre che pur di avere possibilità come quella si dovrebbe essere disposti a tutto, perché solo così si può essere liberi. Durante il fascismo per poter lavorare bisognava prendere la tessera del Partito fascista. Altrimenti a casa. Qualcuno s’è ostinato a non farlo e gliene va dato atto, e credo che mio nonno materno sia stato uno di quelli. Sapevano a cosa andavano incontro e cosa avrebbero pagato. Chapeau. Non per ciò credo che si debba considerare dei “voltagabbana” opportunisti tutti coloro i quali considerarono quello il male minore e comunque la condizione che avrebbe consentito loro di combattere in altro modo il fascismo. E lo fecero davvero.
Su una rivista di categoria – quella a cui spero di appartenere al più presto, o, almeno, nei tempi previsti dalla legge, ovvero sia la rivista dei giornalisti pensionati – Mario Talli, stimato collega che ha guidato Paese Sera a Firenze negli anni in cui quel giornale era una delle migliori testate che siano mai circolate in edicola, tempo fa ha pubblicato un articolo che suppongo abbia suscitato qualche ira.
Sono stato a sentire Edith Bruck, invitata dall’Istituto storico della Resistenza nell’ambito di una iniziativa organizzata per ricordare i 25 anni dalla morte di Primo Levi che prevede anche un incontro, il 5 dicembre prossimo, con Moni Ovadia. L’ho ascoltata con attenzione e voglia di sapere di più sullo scrittore che più amo e ai cui pensieri, o al cui modo di ragionare, devo molto. Ho dovuto trattenere le lacrime quando, ricordando l’11 aprile 1987, ha spiegato perché in qualche maniera quel giorno ha gridato disperata più per la scomparsa dello scrittore che dell’amico. Frase che potrebbe risultare cinica o anafettiva se non l’avesse pronunciata quella donna e con lo sguardo che aveva in quel momento negli occhi.
A detta di sacre scritture, alle quali poco credo pur avendone rispetto e desiderio di conoscenza, la maledizione più atroce che ci sia stata inflitta dal gran burbero incanutito è quella di dover lavorare col sudore della propria fronte, condanna contigua o complementare all’altra di provar vergogna del proprio corpo ignudo fino a doverlo rivestire di almeno una foglia di fico, e, per quella strada, di viver assai meno genuinamente i bollori della nostra epidermide e il desiderio di incontrarsi.
È lecito, onesto, servirsi di uno scrittore, per scoprire non la realtà che lui ci ha rivelato, ma quella che, da lettori, ci risulta evidente ed è sotto ai nostri occhi? È la domanda che viene da farsi dopo aver scoperto il punto d’incontro, e forse di scontro, fra due grandi personaggi della nostra storia civile e culturale, verso i quali l’Italia ha un profondo debito, a giudizio di chi scrive non sufficientemente saldato: Primo Levi e Franco Basaglia.
La relazione tra lo scrittore torinese e il padre della psichiatria democratica è stata messa in luce da Massimo Bucciantini, docente di storia della scienza nell’Ateneo di Siena ed Arezzo che, l’11 novembre 2010, ha tenuto una lezione all’Università di Torino, ora pubblicata da Einaudi nella collana “Lezioni Primo Levi” con il titolo Esperimento Auschwitz[i].
Scrive Franz Kafka ne Il processo (la versione che ho è quella tradotta da Primo Levi nel 1983 per Einaudi): «Restare sempre quieti, anche se a controcuore! Cercare di capacitarsi che questo grosso organismo giuridico è in certo modo condannato a uno stato di provvisorietà permanente, e che se uno si prende l’iniziativa di cambiarvi qualcosa in un determinato luogo, non fa che scavarsi la terra sotto i piedi e può finire col cadere, mentre il grosso organismo (poiché tutto si tiene) trova compenso altrove alla piccola perturbazione e rimane inalterato: quand’anche, cosa probabile, non ne esca ancora più chiuso, più vigile, più severo e più malvagio. Si lasci fare quindi all’avvocato, invece di disturbarlo. I rimproveri servono a poco, specie se non si riesce a farne comprendere i motivi in tutta la loro importanza, ma bisognava pur dire quanto danno aveva arrecato K. Alla sua causa col suo comportamento nei confronti del segretario capo».
Scrive Tahar Ben Jelloun in Giorno di silenzio a Tangeri: «Resta persuaso che la follia hitleriana avesse inscritto nel suo programma l’eliminazione degli Arabi dopo quella degli Ebrei». Non è difficile crederlo. E bisognerebbe riflettere sul fatto che, come ha scritto Primo Levi in Se questo è un uomo, gli anziani del Lager chiamassero i deboli, gli inetti, i votati all’annientamento, «Muselmann», mussulmani (cfr. Primo Levi. Conversazioni e interviste. 1963-1987, a c. di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, p. 222 n.).
Prendendo spunto da queste due opinioni e pensando alla voglia di democrazia che circola in Medioriente, alle rivolte in corso, e all’anomala presenza di un paese che in quell’area geografica già da tempo vive in una democrazia, mi domando cosa succederebbe se a quell’esperienza si guardasse negli altri paesi che si affacciano a Sud del Mediterraneo. Sì, per quanto folle ed impensabile possa apparire, a un patto, a una solidarietà, fra Israele, il Marocco, la Tunisia, il Libano, la Libia, secondo parametri che non sono quelli delle democrazie in Europa, o degli Usa, o di esperienze altrove.
Son piemontese e, dunque, anch’io un bugia nèn. Letteralmente vuol dire «non muoverti», ma in realtà ha secondo me una diversa variazione di significato. Almeno così io l’ho appreso nella mia infanzia.
Le montagne alle spalle di Torino
La definizione dei piemontesi mediante quest’espressione deriva da un episodio della battaglia dell’Assietta. L’Assietta è un colle su cui 5.000 soldati male armati piemontesi il 19 luglio 1747 attesero 20.000 soldati francesi, ben riforniti di artiglieria e d’ogni altro armamento e decisi a spingersi fino a Torino. Qui le versioni discordano: una dice che il comandante disse loro «bugia nén», di star fermi e non arretrare, un’altra che fu invece proprio il comandante Novarina a rifiutarsi per ben tre volte di eseguire l’ordine del comando supremo di ritirarsi dicendo «Mi am bugiu nèn!» (io non mi muovo!) e i suoi uomini gli fecero eco: «Bugia nèn!», non muoverti! e per primi loro non si mossero, incoraggiandosi così a vicenda fino a che non riuscirono a sconfiggere i francesi.
È una soddisfazione particolare – aggiuntiva alle altre – quella di presentare venerdì prossimo, 11 febbraio alle 17.30, il mio libro alla Biblioteca delle Oblate in via dell’Oriuolo a Firenze nell’ambito della prestigiosa rassegna che da anni organizza Anna Benedetti. Una soddisfazione particolare per il titolo della manifestazione: Leggere per non dimenticare.
“Per non dimenticare” è un monito che ha preso corpo non solo per rendere omaggio alle vittime dell’Olocausto, ma per impedire che, come si è variamente tentato e ancora qualcuno vi prova, quell’orrore sia negato, confinato in un passato troppo lontano, rimosso e, perciò, replicabile. L’assillo di Primo Levi, che inquietava i suoi sonni e lo lasciava sgomento, era quello di non essere creduto, quello di portare una testimonianza che addirittura i più cari trovassero inattendibile. C’è più di una pagina in cui ce lo dice. E dunque no, no: testimoniare, raccontare, dire, scrivere, appuntare, perché appunto non si dimentichi, non ci si scordi, non si cancelli.
Ne L’altrui mestiere, in un brano intitolato Perché si scrive?, Primo Levi individua, tra le ragioni di questa attività umana che lo condizionò per l’intera sua esistenza, quella di «liberarsi da un’angoscia»:
Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla cos’ì com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.
È la medesima argomentazione con cui replicò alla mia lettera di accompagnamento al racconto Sempre più verso Occidente che gli spedii poco prima che si togliesse la vita, argomentazione pubblica in virtù della quale mi sono sentito di violare il patto segreto di una corrispondenza privata, pubblicando quelle frasi come introduzione a una storia che vuol riconoscere il debito dovuto e non ammantarsi di virtù proprie che, se ci sono, sono solo a posteriori.
Ne I sommersi e i salvati, Primo Levi biasima giustamente con parole di disprezzo coloro che teorizzano l’incomunicabilità.Ciò nonostante anche la persona animata dalle migliori intenzioni di comprensione si scontra con una assolutamente maggioritaria propensione ad esprimere concetti sconclusionati, frasi sconnesse, discorsi sostanzialmente privi di senso; il che non facilita la comunicazione, la quale non richiede solo il desiderio di almeno due persone di dirsi qualcosa, ma anche la volontà di ascoltarsi, di capire, e, senz’altro, di farsi capire. Da questo punto di vista, lo confesso, faccio molta fatica.
Se, in tempi di accreditato revisionismo e di opportunistici pudori “politically correct” il riferimento a Lukács e a Lenin dovesse risultare esageratamente blasfemo, si possono trovare altrove riflessioni – di cui abbiamo già dato conto – che inducono a considerazioni similari.
Scriveva Primo Levi nel racconto Vanadio compreso nella raccolta Il sistema periodico:
Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada: perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi[1].
I quattro cavalieri dell'Apocalisse di Albrecht Durer
IX. Il fantasma dell’Apocalisse
Ma ha senso sventolare il fantasma dell’Apocalisse per invitare alla politica e per spingere chi fa politica a una politica che
Giovanni Apostolo
escluda il ricorso alla forza? Che affermi se stessa contro la guerra essendo questa la negazione della politica? Che persegua quei fini che non distruggono il mondo evitandogli la fine?
E ancora, quali sono quei fini che non distruggono il mondo evitandogli la fine? Tolta la guerra, è più securitario e preservativo distribuire equamente le ricchezze nel mondo, o lasciarle in poche mani, o proporre una sobria povertà per tutti? E infine, che strumenti abbiamo per perseguire uno di questi fini, una volta deciso quale di essi sia quello che non distrugge il mondo evitandogli la fine?
Proviamo ad affrontare la prima di queste domande, dalla cui risposta potrebbero scaturire importanti suggerimenti anche per soddisfare le altre.
«Forse dovremmo aver più coraggio – scrive Revelli – nell’affermare, con maggior nettezza, che il “paradigma politico dei moderni” non funziona più»[1].
Ma forse non è un problema di coraggio, né questione di affermare con maggior nettezza. Semplicemente «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più». O meglio non ha mai funzionato. E questo al di là della buona fede e dell’acume di Hobbes.
Un’altra critica di fondo da fare al libro di Revelli è che in esso vi è un eccesso, se così lo si può chiamare, di attenzione al ruolo del religioso, malgrado proprio questa sia la forza del libro, soprattutto nella parte storica, ma anche nell’osservazione degli accadimenti più vicini ai giorni nostri.
Revelli giustamente ci dice che il Libro di Giobbe è il «trattato originario sulla questione del male», il promemoria individuale e storico del dolore e della sofferenza dell’innocente, il libro della prova dell’uomo e dell’assenza di Dio[1].
Fra le nove risposte che ne L’altrui mestiere Primo Levi dà alla domanda Perché si scrive?, ce n’è una che annovera la fama, il diventar famosi.
«Credo – scrive Levi – che solo un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso; ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l’angelico Carroll […], sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c’è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto».
Fra gli strumenti indispensabili allo scrittore per diventar famoso e più che altro far vendere il suo libro c’è quello delle presentazioni in pubblico. «Ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto».
Primo Levi ha scritto che «là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». Noi potremmo aggiungere che là dove la si fa al linguaggio, la si fa anche all’uomo e, di più, che spesso si comincia col linguaggio per finire con l’uomo.
Sono contento. La prima reazione che ho avuto al post precedente, Scrivere di politica, è stata quella d’un operaio torinese al quale mi sono rivolto dandogli di dottore e son contento d’averlo fatto anche se mi dice essere privo di laurea. Vorrei ribattezzarlo il mio Faussone pensando a quel meraviglioso personaggio inventato (o solo narrato) da Primo Levi ne La chiave a stella. Altro che Ph, con tutto il rispetto per i dottorati di ricerca e chi li ha conseguiti. L’intelligenza può essere patentata e giungere a quel foglio aiuta a svilupparla, ma non è il titolo a fare il neurone. Oh no, questo proprio no.
Il mio Faussone, o Cipputi per chi gli fosse più familiare, oltre a – nella mia fantasia – stringer bulloni, schiacciare presse, azionare macchinari, mette in piedi anche dibattiti e conferenze a cui partecipa gente con la patente per dir la sua un po’ fuori dagli schemi, o meglio, come mi ha scritto lui “in maniera diversa”. Che poi, da quel che ho capito, è la concretezza.
Se ho scritto un libro che s’intitola Sempre più verso Occidente, in realtà debitore solo a una splendida storia di Primo Levi e a un immenso dolore nel cuore, ci dev’essere tuttavia una qualche mia particolare attenzione a ciò che il termine geografico, quel punto cardinale che indica la terra dove tramonta il sole, significa anche di altro.
Un tramonto
Così è. Intorno a quel concetto ho spremuto a lungo le meningi, leggendo tutto quello che ho potuto, forse seguendo un percorso tutto mio e affatto accademico o, per così dire, scientifico.
La parola ne ha incrociate altre e non so più dire quale sia stata quella che ha dato origine a un dizionario personale, a una giungla di concetti che mi fa venire in mente Leporello quando nel Don Giovanni dice:
Mille torbidi pensieri
Mi s’aggiran per la testa;
Se mi salvo in tal tempesta,
È un prodigio in verità.
Io non so. Le ho sentite tante volte da bambino che mi sembrano, per così dire, naturali. In mio possesso e nel dominio di tutti. «Ne vorrei una lacrima» si risponde a chi ti offre qualcosa da bere, ed è evidente che gli si sta dicendo di versare poco, appena appena. E chissà se dietro c’è un residuo triste, doloroso, legato al pianto, forse a una rinuncia.
Qualcuno ti allunga il vassoio a tavola e tu dici: «Solo un’idea». Splendida frase, con tutte le sue contraddizioni epistemologiche, come se l’idea fosse meno dell’oggetto che rappresenta e quanto sta nella mente inferiore a ciò che si trova nel mondo. «Solo un’idea», anche qui un’infinitesimale, microscopica frazione, un’inezia.
Son modi di dire piemontesi, comunemente usati nel linguaggio di tutti i giorni, entrambi sinonimo di “cicinin”. A spulciare i dizionari dialettali se ne troveranno certamente di analoghi in ogni dove, mi viene in mente l’”ombra” veneta, non l’oggetto vero e proprio ma solo la sua proiezione per effetto di una luce, sufficiente però a indicare che l’oggetto esiste, è presente, c’è.
Qualcuno, senza lasciare traccia e con tre bei punti esclamativi, mi ha invitato a vergognarmi perché sulla scheda editoriale del mio libro, predisposta dall’editore c’è scritto che «l’ispirazione nasce da un racconto di Primo Levi» e se questo «era di un pessimismo cosmico, quello di Pugliese è di un pessimismo sconcertante…». Con tre punti interrogativi desunti dalla retorica anziché dal bisogno di capire, mi si mette a confronto con quello che per me è il più grande scrittore italiano: «Daniele Pugliese sofferente più di Primo Levi ???». La risposta, con tre punti esclamativi, è appunto «Ma vergognati !!!».
Non lo faccio. Non per questo. Forse di altro, senz’altro di altro. Daniele Pugliese non è più sofferente di Primo Levi. Non è stato in lager. Ha provato ad accostarvisi e a tentar di capire, e qualcosa gli è baluginato nella mente o gli è esplosa nel cuore. Le sfumature del pessimismo, cosmico, sconcertante, affettato – coraggio col dizionario –, si limitano a un racconto che in un caso termina con un’accidentale morte, nell’altro con un suicidio e un invito a «sentirsi inutili con tutto inutile intorno». L’equazione tra una frase e l’altra è totalmente sbagliata, una delle tante miopie.
La presentazione del mio libro nel giardino del Museo ebraico di Livorno è stata, per me, un’esperienza intensa. E sono molto grato a Paola Jarach Bedarida di averla organizzata e al sindaco Alessandro Cosimi di avervi partecipato. Entrambi hanno portato una lettura molto particolare del mio libro, che non è quella che, per lo più, chi l’ha letto mi dice di avervi trovato, ma che invece a me sembra rispondente, magari più nascosta, ma pertinente. E soprattutto, i ragionamenti che sono scaturiti nelle domande di un pubblico molto attento a partire da quelle due letture, non necessariamente riferibili al libro ma ai temi che dal libro portano alle considerazioni sul presente, mi sono sembrati di grande interesse.
Da una risposta di Sergio Romano a un lettore nella rubrica delle lettere del Corriere della Sera di oggi, apprendo questo messaggio di saluto inviato da Mario Rigoni Stern nel 2007 al convegno dell’Anpi di Treviso che mi sento in dovere di ricopiare:
«Cari compagni,
sì, compagni, perché è un nome bello e antico, che non dobbiamo lasciare in disuso: deriva dal latino “cum panis”, che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza, con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze.
Paolo Pietrangeli all'Istituto Ernesto de Martino a Sesto Fiorentino
L’invito me l’ha fatto Maria Valeria della Mea. Un po’ per la passione condivisa ed in entrambi i casi ereditata per la canzone popolare, di cui ho parlato in un post intitolato Grazie zii, un po’, forse, anche perché in una qualche delle nostre schizzate conversazioni le ho parlato dell’amore, o ammirazione o solo sfegatato interesse che ho avuto e conservo per Ernesto De Martino, l’autore di Furore, simbolo, valore, di Magia e civiltà e, soprattutto, di La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, testo a partire dal quale sono scaturite le oltre 400 pagine di tesi che non ho mai consegnato a Paolo Rossi Monti per laurearmi e che ancora giacciono nel mio cassetto in attesa che un editore me le pubblichi prima del 2012, data oltre la quale qualcuno dice che il mondo non ci sarà più e «la razza è perduta».
Paolo Vannini, docente di filosofia e membro del salotto letterario di Gianni Conti a Sesto Fiorentino
Sono stato molto in imbarazzo quando i giornalisti che mi hanno intervistano su Sempre più verso Occidente e altri racconti, hanno chiesto cosa leghi queste dieci storie fra loro, quale sia il “filo rosso” che le tiene insieme. Ho, per lo più, risposto con quello che l’editore ha scritto nel risguardo della seconda di copertina: «Certamente temi che si rincorrono nei dieci racconti di questo libro – la morte, l’amicizia, l’amore illecito – ma più che altro, probabilmente, il tentativo di guardar negli occhi l’assurdo, il refuso stratosferico: il vizio di forma, la cellula tumorale, le sliding doors storiche».
Per me è difficile trovar un minimo comun denominatore che pur dev’esserci, perché – come scriveva Primo Levi in Psicofante (Vizio di forma, in Opere I, Torino, Einaudi, 1997, pp. 687-8) – «– È impossibile che un apparecchio ti dica chi sei, perché tu non sei nulla. Tu, e tutti, mutiamo di anno in anno, di ora in ora. Poi: chi sei tu? quella che credi di essere? o quella che vorresti essere? o quella che gli altri ti credono? E quali altri? ognuno ti vede diversa, ognuno dà di te una versione sua personale».
Sentendo presentare, finora, il mio libro da Pasquale Mennonna, Vannino Chiti e Gianni Conti, e sentendo coloro che alla discussione hanno aderito o vi han partecipato, mi è ancor più difficile trarre un bilancio, tirare una riga, far una somma. Ognuno dà di te una versione sua personale. Che poi, ognuna, mi calzi alla perfezione è altra storia.
Andrea Pugliese, consigliere comunale del Pd in Palazzo Vecchio (Foto Cge Fotogiornalismo)
Il 16 marzo scorso, in questo blog – che io, con un po’ di presunzione o ambizione, preferirei chiamare Die Fackel, come la testata del giornale che a Vienna Karl Kraus scrisse, impaginò, diresse, stampò, distribuì tutto da solo fra il 1899 e il 1936, anno della sua morte – in un articolo intitolato Odio in buca, ho reso noto d’esser stato lungamente importunato da qualche Riccardo cuor di leone – o Riccarda leonessa – da un’ondata di lettere anonime. Benché una auspicasse il mio suicidio – come i lemming di Sempre più verso Occidente o come quelli maledettamente veri di Primo Levi e Bruno Bettelheim – non posso dire che il tenore delle missive fosse minatorio.
Questa mattina Repubblica ha pubblicato un articolo che svela quello che mio fratello Andrea, consigliere comunale in Palazzo Vecchio, ed io sapevamo da ieri mattina, tenendocelo per noi, tranne che, nel suo caso, informare il sindaco di Firenze, il presidente del Consiglio comunale, il capogruppo del Pd e la Polizia, presso la quale ha sporto una denuncia contro anonimi. Neanche nel caso di Andrea si tratta di una lettera minatoria: gli hanno spedito due cartoncini intestati del Senato della Repubblica italiana con 30 centesimi che starebbero, si capisce, per i più noti e iscarioti 30 denari.
Qualcuno che ha letto il libro mi ha fatto i complimenti. Molti sono stati zitti. Ma quelli che mi hanno colpito e mi sono piaciuti di più sono quelli, anzi quelle, che si sono incazzate. Reazioni forti. Critiche dure, pesanti, dirette. Senza freni. In un caso per aver dilagato con dolore e tristezza in una visione serena della vita. Io sono felice e tu mi addolori. Aveva ragione Primo Levi: non si deve spargere al vento la propria angoscia. Non la si trasmette al lettore. Non si scrive dei lemming e della loro inclinazione al suicidio. Secondo caso, seconda critica, legittima, accolta: in “Specchio retrovisore” in qualche maniera legittimi la pedofilia, lasciando che il protagonista nutra sentimenti o passioni verso minorenni indifese. Replico: non c’è niente di agìto e il cuore del racconto è tutt’altro, le bambine sono marginali e più simboliche che sostanziali. Ma accolgo la critica, ci rifletto. E ribadisco il mio orrore, la mia lontananza, la mia repulsione. Pazzi sì, ma non fino a quel punto. Senza quell’angolo di cervello, però, non esisterebbe né “Morte a Venezia” di Thomas Mann, né una riga di Nabokov. L’umanità forse ne sarebbe arricchita, la letteratura no. Comunque grazie amiche, grazie lettrici. Grazie per esservi incazzate leggendo.
«Lei ha preso molto (troppo!) sul serio un mio racconto di cui oggi mi vergogno un poco, perché l’ho scritto in un momento di angoscia e di debolezza, e perché, invece di essere d’aiuto all’eventuale lettore, rischia di estendere a lui il disagio dell’autore. Se così è avvenuto, accetti le mie scuse; oggi penso che spargere al vento le proprie angosce possa portare sollievo a chi lo fa, ma sia poco morale».
È curioso, non lo ricordo più, ancorché siano passati così pochi giorni. O forse non l’ho mai saputo. Non me l’ha detto. Presentazioni ufficiali non ce n’erano state. Neanche il gruppo iniziale della compagnia di quella sera era di lunga data.
Dorotea era sua cugina. Bellissima lei con quelle ciocche di capelli grigi sparpagliate fra pennellate bionde su una tela di seta castana. Una tela raccolta dietro la nuca, la semplicità che si trasforma nel sofisticato, nel solenne.
Mai nessun giornale dirà perché. Ma tutta la stampa riportò la notizia di «un uomo a cavallo di un delfino» al largo di Corfù. Si leggeva negli articoli che i marinai l’avevano avvistato dirigersi verso levante, in direzione quindi della costa greca. Ma dai porti di quel paese non giunsero altre segnalazioni. Fu invece un famoso skipper che, molti anni dopo, raccontò di aver incrociato il busto di un uomo che tagliava l’acqua come fosse una prua, al largo della Spagna in direzione Gibilterra. Per l’esattezza quell’anomalo incontro era avvenuto a poche miglia da Moraira.
Si precipitò allora in un negozio di libri del centro e, con un certo stupore del commesso, ordinò due volumi di un dizionario enciclopedico della lingua italiana. Poi passò da un vecchio amico che lavorava in una tipografia e lo pregò di spaginargli quei due vocabolari. Anche l’amico, come il commesso, lo guardò con aria stupita, ma non gli fece neanche una domanda. Era basso e dall’aspetto fragile, ma sembrava un rude boscaiolo quando sfasciò le due copertine di cartoncino telato. I volumi, ancora rilegati, finirono l’uno accanto all’altro sotto una potente taglierina che non sembrò faticare molto per affondare la lama nelle oltre duemila pagine dopo che il linotipista l’ebbe allineata a pochi millimetri di distanza da dove partiva l’inchiostro.
Racconti di Daniele Pugliese, direttore di Toscana Notizie
Italo Calvino
(Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 01 feb – Un pizzico di Italo Calvino e delle sue descrizioni minuziose, scientifiche e graffianti. Una spruzzata di Joseph Conrad, del suo gusto per l’esotico e per la crudezza dei fatti. E in aggiunta un po’ di quel gusto per l’assurdo razionale e per i paradossi senza risposta tipico di Dino Buzzati. (continua…)
CULTURA: ‘SEMPRE PIU’ VERSO OCCIDENTE’, LIBRO RACCONTI DI PUGLIESE
(ASCA) – Firenze, 17 nov – Dieci racconti alla ricerca dell’assurdo, del refuso. E’ ‘Sempre piu’ verso occidente’ il libro, il cui titolo e’ tratto da un racconto di Primo Levi, scritto da Daniele Pugliese (Baskerville, 18 euro), gia’ vicedirettore de L’Unita’, vicecaporedattore della redazione fiorentina del giornale, oggi direttore dell’Agenzia di informazione della giunta regionale Toscana Notizie. Cosa lega la frase ”Che cos’e’ un nemico’?” di ‘Ebrei erranti’ al ”redattore d’istruzioni” di ‘La pasticca verde”? (continua…)
(ANSA) – ROMA, 20 NOV – SEMPRE PIU’ VERSO OCCIDENTE E ALTRI RACCONTI – DANIELE PUGLIESE – BASKERVILLE – PAGG. 219 – EURO 18
- Cosa lega la frase ‘Che cos’e’ un nemico?’ di ‘Ebrei erranti’ al ‘redattore d’istruzioni’ di ‘La pasticca verde?’. Cosa la compulsione o il tradimento di ‘Amore in buca’ all’affranto soliloquio de ‘L’ingrato?’. E ancora: che nesso c’e’ fra la scientifica sorridente disperazione di Walter e Anna nel racconto tratto da Primo Levi che da’ il titolo a questo libro e la ricerca della propria responsabilita’ fino al senso di colpa ‘globale’ di ‘Specchio retrovisore?’. Certamente temi che si rincorrono nei dieci racconti di questo libro firmati da Daniele Pugliese – la morte, l’amicizia, l’amore illecito ma piu’ che altro, probabilmente, il tentativo di guardare negli occhi l’assurdo, il refuso stratosferico: il vizio di forma, la cellula tumorale, la sliding doors storica. http://it.wikipedia.org/wiki/Primo_levi (continua…)
Daniele Pugliese, torinese, movimento studentesco in gioventù, oltre trent’anni di carriera giornalistica sulle spalle, ha all’attivo numerose pubblicazioni, da solo o con altri: una monumentale storia del Pci, un saggio sulla nascita del movimento cooperativo ed un altro sulle fortune del sigaro toscano, oltre alla curatela per conto de “l’Unità”, il giornale nel quale ha lavorato per oltre vent’anni come redattore e poi vicedirettore, di volumi sulla massoneria e sul mostro di Firenze.
Per dieci anni è stato il direttore di Toscana Notizie, l’Agenzia di informazione della Regione Toscana.